Missione azzorriana: accettare di perdersi (per ritrovarsi)
Alle Azzorre il protagonista di “Ti devo un ritorno” di N.Agliardi, edito da Salani, non ci va soltanto per il surf, con cui si diletta. Pietro, trentaduenne, da poco orfano di padre, ci va per l’urgenza di fare i conti con le assenze e presenze della sua infanzia, con la sua bestia – il disturbo che preferisce non chiamare con il suo nome, depersonalizzazione –, per convivere con un sentimento che emerge sempre appresso al senso di bellezza: quello della solitudine.
“Eppure il bello nasconde un grande pericolo, quando non puoi condividerlo. Fa brillare anche la solitudine. Io, con questo sentimento, non ho ancora preso confidenza.”
Ad intralciare la crescita di Pietro non è tanto la solitudine come mancanza di compagnia, quanto la solitudine come assenza di una guida, di riparo, di qualcuno da tenere per mano in un percorso che lo spaventa.
Lo diceva sempre la sua storica ex, Arianna, quando Pietro le chiedeva perché avesse deciso di stare con lui: “Perché tu senza di me ti perdi”. Ma prendersi cura è soltanto un aspetto delle relazioni e Pietro si accorge troppo tardi di aver messo da parte gli altri.
“Certo che a essere troppo prudenti corro un altro rischio, quello di non vivere per nulla, come mi ricordava sempre Arianna.”
“Sono rimasto in panchina, senza nemmeno provare a scendere in campo.”
E qui iniziano i rimproveri: “Corri sempre verso il prossimo riparo”. Immagino un Pietro che percorre a falcate la sabbia scottante per arrivare all’ombra più vicina e rimanerci a lungo, non muoversi più.
“Ho da sempre perimetrato in margini di sicurezza amicizie, casualità e anche sentimenti. Perciò non mi sono mai cacciato nei guai.”
A volte le persone sono armonie risultanti da dissonanze estreme. Pietro non ha paura di gettarsi in pasto alle onde, ma di fronte alla proposta di diventare il padre del figlio della donna che ama, trasale terrorizzato. Per non abbandonare la sua confort zone, lo spazio noto in cui si muove ad occhi chiusi, lascia che la potenza devastante dell’amore passi oltre. Preferisce restare mediocre nella sua banalità quotidiana.
“Fu allora che capii che ci portiamo dentro chi non siamo riusciti ad avere accanto.”
Il padre di Pietro è l’assenza che lo riempie dal momento in cui Pietro la accetta. Arianna è il rimorso di Pietro per la codardia che ha perpetrato prima di maturare. Soltanto con la morte del padre, Pietro sente l’urgenza di crescere. Imposta da fuori dall’obbligo di gestire ciò che il padre aveva cominciato, quest’urgenza scatena in lui le riflessioni che ha calpestato a lungo per non affrontarle. Compra un biglietto di sola andata per l’arcipelago delle Azzorre, saluta Ema, amico storico, e sua madre. Incontra Vasco, giovane che parla un romanaccio e tentenna fra insicurezze adolescenziali, e sua madre Cristina. Osservando in veste di ospite un nucleo famigliare diverso dal suo, Pietro si accorge di come “la distanza fra un uomo normale e un padre sbagliato è una linea così sottile che basta poco a trovarsi dall’altra parte.” E ammette: “Io non so di certi padri”. Ammette a Cristina, preoccupata per le sorti del figlio, che i suoi non sono stati genitori migliori o peggiori, ma soltanto genitori diversi. E, dicendolo, superando giudizi qualitativi e morali, Pietro cresce. Perdona Cristina che si chiede dove ha sbagliato nel crescere Vasco, ma perdona anzitutto suo padre, sua madre, il suo fratellastro e se stesso. Dietro un romanzo apparentemente leggero e semplice si nasconde l’intersecarsi di storie di fughe e crescita che culminano nella riappacificazione con i propri sentimenti. Nel percorso, i paesaggi naturali e la loro bellezza sono un punto fondamentale. Fra la Lagoa Verde e la Lagoa Azul, nei dintorni di Ponta Delgada sull’isola di Sao Miguel, Pietro trova il coraggio di far emergere la sua piccolezza. Quella stessa piccolezza che emerge quando cavalca l’onda e misura la sua insignificanza, la piccolezza che però definisce anche la sua stessa infinita unicità che ha rifiutato quando Arianna gli ha chiesto di compiere con lei l’enorme miracolo di generare un’altra vita.
Pietro ha già sperimentato per istanti brevi la sensazione di sentirsi un tutt’uno con il pianeta. Ricorda bene di aver sentito “una grande debolezza, quando ero in Brasile, dove la bolla di vapore generata dalle piante amazzoniche ha sciolto la mia dissociazione come non era riuscito a fare nemmeno lo Xanax”. Ricorda di Venezia, dove ha pianto in silenzio per la commozione e la fortuna che aveva di trovarsi lì, in quel momento. Ma ha sempre cacciato indietro le lacrime e le vertigini che gli aprivano dentro. “Quando si rompe la barriera di carta velina che mi protegge dal senso di vuoto, quel punto lì comincia a pulsare e mi fa perdere di vista la strada, e a volte anche il ritorno”.
Nicolò Agliardi racconta che si cresce quando si ha il coraggio di guardare negli occhi l’infinita bellezza delle cose, le sfumature dei rapporti oltre le valutazioni binarie della morale comune, si diventa adulti quando si perdona il proprio passato, chi ci ha cresciuto, chi non abbiamo accolto, e si riparte dal punto presente senza nessuno scheletro nell’armadio.
Pietro diventa adulto a trentadue anni compiuti, lo diventa accorgendosi dello scarto che lo separa da Vasco, dall’empatia con Cristina, lo diventa misurandosi con la sua solitudine.
“La mia missione azzorriana era chiara fin dall’inizio: non proiettare, ma vivere il mare e me stesso al meglio delle mie facoltà”.
A fare da sfondo alla narrazione, un fatto di cronaca poco noto che narra dello sbarco di un italiano che reca con sé un quantitativo enorme di cocaina sull’isola. A fare i conti con gli stupefacenti, centinaia di ragazzi che sembrano diventare zombie e che, nella loro degenerazione, spingono Pietro a riflettere, a convincersi del senso della vita proprio mentre cerca di convincere gli isolani a far fronte alla sostanza che lo risucchia.
Ho apprezzato il libro di Agliardi che mi ha ricordato nel tono goliardico che Pietro usa con Ema il mio Piani di fuga, ma anche per la corsa del trentenne alla ricerca di qualcosa e in fuga da qualcos’altro. Ho apprezzato il romanzo di Agliardi perché incastra una storia semplice in una valida cornice storica e geografica. Ho apprezzato la lettura delle duecento pagine scritte da Nicolò Agliardi perché mi hanno spinto ad ascoltare il bisogno di una fuga per guardare anche la mia, di vita, da lontano e, al contempo, di gettarmi in un presente non programmato. Così, ancor prima di terminare la lettura, ho deciso che le analogie con Pietro erano sufficienti. Ho preso Agliardi alla lettera.
E ho preparato le valigie per il mio imminente viaggio nelle Azzorre.
[ Grazie a Marco, Amico con cui ho scherzato quando quella delle Azzorre era ancora una sparata tirata in ballo per assurdo, Grazie per aver reso materialmente possibile una parte del mio ennesimo piano di fuga ma, soprattutto, buon compleanno a lui che oggi soffia su candeline inglesi ]