Marcelo e il mare: il Cohen che non ti aspetti
Parliamo oggi di un Cohen che non è quello che ci si aspetta. Non è il buon Leonard, le cui melodie riecheggiano in questi giorni successivi alla sua dipartita, ma è Marcelo Cohen, sessantacinquenne autore argentino. Di suo, Gran Vìa ha pubblicato recentissimamente “L’illusione monarca” (nella traduzione di Francesca Lazzarato).
L’archetipo dell’isola come luogo di detenzione ed isolamento è più che consolidato.
Il mare come abisso in cui tuffarsi per trarre ispirazione, altrettanto.
Eppure, la storia che Cohen racconta non sembra di seconda mano.
La prigionia dei detenuti sull’isola echeggia l’inferno sartriano dove non c’è nulla di apparentemente infernale eppure la crudeltà della stasi è il dolore più devastante. Proprio allo stesso modo, nell’isola sembra che manchi qualsivoglia punizione, che ci si limiti ad imporre ai malviventi un tacito isolamento. Chissà se è il suggerimento di uno stato di prigionia interiore, mentalmente autoinflitta ma di fatto, concretamente non vincolante nella realtà esterna. Chissà quanto c’è di allegorico nella guerra fra poveri in quest’isola dove nulla è trascendente e i blocchi sono quelli concreti ed immanenti della locazione geografica in cui finiscono i malcapitati. Richiama anche un po’ l’isola misteriosa di Lost, quella di Cohen, ma forse sono soltanto analogie di una nativa digitale. C’è il “Signore delle Mosche” nella guerra fra poveri per ottenere droghe e biscotti che diventano merce di scambio e oggetto di contenzione, c’è Jean Genet imprigionato a Mettray che trasfigura la realtà in un onirico susseguirsi di visioni omoerotiche, c’è il linguaggio scurrile dei ragazzi che col tempo inventano una ragione, ognuno la sua, per contestualizzare e giustificare la loro presenza sull’isola.
Non dirò che c’è l’eco di “Oceano Mare”, perché Cohen non si limita a formare belle frasi evocative. Ad unire i due lavori probabilmente c’è quell’unica forza acquatica che ha spinto anche Melville e Hemingway a raccontare il mare. Un mare, quello di Cohen, che non accoglie più, anzi rigetta sulla rena vite e cadaveri, un mare descritto ad ogni nuovo inizio: colpito dalla pioggia, nell’attrito sordo di acqua su acqua, impastato dalla sabbia che invade e pervade, blocca, agglomera.
Nell’isola, pirati informatici mitomani ecologisti, spacciatori di ghiandole di contrabbando, gemelli sfuggiti ai grandi progetti dei genitori. Sergio, il contrabbandiere, lo troviamo a rimpiangere il momento in cui, tentato il nuoto in mare aperto, non ha colto l’attimo per voltarsi e guardare l’isola-prigione da lontano.
“Se non ci fosse stato il mare, ogni detenuto avrebbe misurato la qualità del proprio futuro nello specchio appannato della debolezza altrui.”
Unica livellatrice democratica, il mare erode i dislivelli sociali ed economici. I presenti sull’isola sono soli con le loro capacità e abilità. Sergio se la cava perché nuota meglio di altri, ma da solo non vale niente e per questo, in fuga dal mare che non accoglie, trova riparo nelle pacche dei compagni. Anche se anche a lui toccherà sottostare alle dinamiche ambivalenti e ambigue del sommo valore degli uomini: l’amicizia. È proprio quell’amicizia, l’unità di misura dell’onore; ma anche la falce che divide i detenuti in gruppi, che alimenta l’ingegno e porta i compagni a fabbricare fruste fatte con cavi di rasoi elettrici o borchie di giubbotti, frammenti di conchiglia acuminati, ceramica del water affilata.
È proprio il mare a rendere gli uomini rapaci, con la sua “energia criminale”.
Ho ricontrollato varie volte il titolo del romanzo di Cohen, convinta che la vista mi giocasse un brutto scherzo. “L’illusione monarca”: proprio così. Continuavo a volerci leggere qualcosa come “L’illustre monarca”, volevo fare del monarca un soggetto e non lasciare questo ruolo centrale all’illusione. Invece Cohen intendeva proprio questo: l’illusione umana che detta legge. In mare più che mai.
“Il mare è un’illusione di continuità che a ogni istante si disintegra in violenze.”
“Il carcere è come la vita, la vita sociale. Guarda quanto è povera la gamma di relazioni tra noi, tra i detenuti, dico. Che scarsa inventiva, che assenza di sfumature. Lasciamo che il mare risucchi il nostro sguardo. Viviamo in senso longitudinale, protesi verso un mitico punto di consacrazione. Quando in realtà la spiaggia è così dolce per tutto ciò che è trasversale.”
Proprio nel tentativo di innalzarsi verso un ordine gerarchico soggiacente, i prigionieri con il passare del tempo avanzano alcune ipotesi: si tratta di un mero esperimento di eugenetica per determinare chi sia il migliore e chi meriti di essere sconfitto? Che esista davvero un libro in cui da tempo è stato già profetizzato tutto? Che qualcuno voglia soltanto metterli uno contro l’altro e divertirsi standoli a guardare?
Il mare beffardo, ricoperto di mille epiteti, raccontato in centinaia di modi, oggetto di infinite tesi e improvvisate pillole di saggezza, resta in silenzio. Carcere a porte aperte, delimitato unicamente da alte pareti che incanalano il flusso dei più coraggiosi e sputano con il reflusso delle onde le membra di chi non è riuscito a fuggire, il mare tace.