L’irregolare Rolly
La strada era lunga e tortuosa… irregolare come il suo passo.
Camminava con lo zaino in spalla, lungo un sentiero che lo portava in città.
Aveva deciso di andare a piedi per osservare ancora una volta la valle, verso la città che lo aspettava, insieme al lavoro finalmente arrivato. Unica ricchezza: un mucchio di matite di mille colori e l’album da disegno da cui non si sarebbe mai separato.
Una doppia fila di cipressi guidava quel ripido pendio, quasi una caduta all’interno di un abisso ignoto e privo di luce.
I due muraglioni verde smeraldo erano talmente fitti da oscurare la luce del sole e talmente alti da disegnare ombre lunghe serpeggianti sull’asfalto. La collina era una grassa signora dall’ampio vestito rappezzato e cangiante secondo le stagioni. Ricordò i suoi colori. Il bianco degli inverni… il verde delle primavere, il caleidoscopio dei fiori selvaggi e mutevoli.
In quei luoghi solitari aveva riflettuto su ciò che fosse realmente la vita e descritto con semplici tratti di matita, ogni fiore, ogni farfalla, ogni ramo.
Sua unica ricchezza, un mucchio di matite colorate e un album da disegno dai quali non si sarebbe mai separato.
Un ragazzo diverso, a dire di molti paesani. Un artista, secondo altri. Costretto a sentire parole indecifrabili infisse come chiodi nell’anima fragile e sola.
Da alcuni mesi attendeva l’occasione di lasciarsi alle spalle un passato chiazzato di macchie oscure e amare.
Alla morte dei suoi genitori, aveva visto dissolversi l’ultimo legame con i luoghi dell’infanzia. Aveva abbracciato il fratello Marco di soli due anni maggiore di lui, sempre pronto a proteggerlo dagli ignoranti del paese. Lo spiava di nascosto e lo tormentava con domande sulla giornata a scuola, sui suoi compagni e compagne. Queste ultime erano una vera ossessione, da quando aveva visto Rolando giocare con loro, con ciprie, smalti e rossetti. Gli aveva strattonato un braccio trascinandolo via.
Durante una lezione di geometria qualcuno gli disse che somigliava molto ad un’intrusa figura irregolare tra i solidi platonici dalle forme perfette e preziose come diamanti.
Le sue facce erano sghembe e informi, privi di armonia ed eleganza. L’avevano denominata Rolly e in quel nome finì col riconoscere se stesso… l’irregolare Rolly.
Adesso la strada si faceva più dura. Le scarpe affondavano nella melma del mai visto prima. Sulla scia dei tanti c’era una volta di nonna Maria, due ali fantastiche lo trascinavano in alto e lontano dalle pareti della piccola stanza. Poi lo precipitavano nelle ombre dei perché inappagati, dei chi sconosciuti, dei quando mai esplorati.
Bocconi mai deglutiti gli serravano la gola.
Non voltarti mai indietro! Così aveva detto allo specchio, quella mattina.
“Buongiorno. Sono Rol… Rolando, il pittore. Mi avete chiamato ieri”.
“Ciao! Sono Arturo, vieni con me, ti faccio vedere… Quella là in fondo è la tela”.
Rolly gli porse la mano sudata. Poi lo seguì. Davanti a lui si distese la grande superficie bianca sul cavalletto. Un cupo rimbombo lo avviluppava come fosse all’interno d’un grande tamburo. Si sentì piccolo e solo.
Un’intrusa figura irregolare tra i platonici solidi dalle forme perfette, preziose come diamanti.
“Ho qui il contratto. Se vuoi dargli un’occhiata… lo firmerai domani”.
Arturo tirò fuori dalla borsa un foglio ripiegato più volte. Lo porse a Rolando che cercò di frenare il tremore della mano, ma non poté nascondere una specie di sorriso simile a una smorfia. Era il suo primo contratto di lavoro.
“Purtroppo devo andare. Su quel tavolo troverai colori, pennelli e quanto ti serve. Da quella porta si accede al tuo alloggio. Spero non ti manchi nulla. Verrò a trovarti domani”.
Si guardò attorno. C’era una piccola sedia di legno sgangherato. La pose davanti alla tela e vi si lasciò cadere senza distogliere lo sguardo dal bianco che lo accecava.
Ali fantastiche lo trascinavano in alto e lontano dalle pareti della piccola stanza. Poi lo precipitavano nelle ombre dei tanti perché inappagati, dei chi sconosciuti, dei quando mai esplorati.
Il ticchettio di un vecchio orologio alla parete gli mise addosso uno strano torpore. Rischiò di cadere due volte.
Si risvegliò tra quattro pareti livide e vuote, con lo zaino accanto, su una branda di legno. Non ricordava come vi fosse finito.
Dalla finestra giungeva il via vai della gente. Un mormorio sommesso, come un lamento.
Poi un urlo acuto alle sue spalle: “Incredibile!!!”
Si voltò di scatto con gli occhi sbarrati. Arturo lo fissava immobile come una statua di pietra.
“Come hai fatto? In una notte…!? È bellissimo!”
“Io… credo di non aver fatto nulla. Quel disegno era già tutto lì… sulla tela.
Ho visto matite e pennelli. Si tuffavano nell’oceano dei colori. Danzavano in un vortice di sogni sulla superficie bianca, rimuovendo il vuoto candore fatto di niente.
Tu mi hai ingannato! Non era una tela… ma una finestra sul lauto mondo che voleva essere mio…
e… non è stato”.