Rosso fuoco. Per tutto quel tempo.
A mia madre non ho mai detto e non dirò nulla di questa storia. Lei è troppo ansiosa e coerente, e ne farebbe una malattia.
A mia figlia, invece, ho dovuto – e voluto – raccontare tutto. Insomma, quasi tutto.
Strano, perché istintivamente avrei fatto esattamente il contrario.
In principio ero talmente impaurita che avrei volentieri cercato rifugio e sostegno nell’accogliente animo materno piuttosto che gravare sulla mia ‘bambina’, ricoprendola di un così pesante mantello, intessuto di responsabilità emotive e mille incombenze pratiche, che IO MAI avrei immaginato.
Eppure dentro quel folle tornado io ci sono, ci sono stata, c’ero… insomma, non so trovare il tempo verbale più adeguato, perché in effetti la guerra più atroce e sfiancante è quella contro il tempo.
Devi avere la fortuna di scoprirlo subito: avere un vantaggio è fondamentale e può determinare il risultato.
Io ero stata abbastanza puntuale negli appuntamenti annuali, già da quando, una dozzina d’anni fa, la furiosa bestia aggredì la mia adorata zia, senza neppure dover fare la fatica di impaurirla: non ce ne fu il tempo.
Quella volta, al mio consueto controllo, il medico non perse tempo. Mi chiese appena un formale consenso e poi agì. Vide, prelevò, esaminò, diede il responso il giorno dopo.
E “il giorno dopo” arrivò lentissimo, sembrò arrivare dopo un mese, anche se erano solo una ventina di ore.
(Quando lotti contro il tempo, il tempo si deforma efficacemente, per confonderti).
Il giorno dopo avevo ufficialmente la sfortuna di essere malata di cancro e, contemporaneamente, la fortuna che un eccellente e famoso luminare milanese stesse giusto per arrivare nella mia desolata città del sud per trasmettere ai colleghi le sue conoscenze e le sue tecniche di una operazione sperimentale.
Clamoroso ed inatteso pareggio: un punto la bestia, un punto io.
Era quello il mio vantaggio, che probabilmente determina il mio raccontarmi, qui e oggi: mi salvò la vita un medico ‘fuori luogo’ che ha annullato le difficoltà dovute alle distanze.
(Quando lotti contro il tempo, in genere anche lo spazio sta dalla sua parte, perché insieme determinano la velocità del duello che dovrai sostenere.)
Ero ufficialmente una cavia. E per fortuna che – almeno – potevo esserlo.
La settimana successiva avevo già segnato un altro punto: i miei seni erano ancora due. Il medico aveva dovuto scavare profondamente nel cavo ascellare, e aveva dunque dovuto sacrificare una discreta, e non ancora ben quantificabile, parte della funzionalità del mio braccio.
Comunque tutto era andato bene, come da manuale. E, come il manuale solo vagamente spiega, combattei per settimane con drenaggi, bruciori infuocati a fior di pelle e fitte che sembravano trafiggermi. E, come il manuale NON spiega: avevo una fottutissima paura. Ma anche una specie di assurdo istinto di sopravvivenza che mi portava addirittura a sorridere.
Mia figlia era con me. Per tutto quel tempo. Forse per lei (me), solo per lei (me), non ho perso il buonumore nemmeno un istante. Avevo bisogno di dimostrarle (mi) che tremare e sconfortarsi non ha senso, che basta affidarsi alle cure diligentemente e con fiducia per… sopravvivere.
Per alcuni mesi ho indossato in casa tutti i colori del mondo avvolti sulla testa, come se la paura potesse sembrare più piccola di fronte a tanta vivacità. E un po’ – solo un pochino – comunque funzionava. Per uscire montavo sul capo una fluente chioma, scelta appositamente di un tono molto più luminoso del mio, ma con un taglio simile.
Chi dice che apparire non conta? Io mi esaltavo a sentirmi fare i complimenti dai conoscenti: ‘Che donna! Non hai mai un capello fuori posto tu!’
Eh. E già. Che dire…?
Ero interamente fuori posto, fuori di me, presente ad una mente che sentiva a malapena il proprio corpo e a stento lo riconosceva, come dopo un trasloco, quando tenti ancora di accendere la luce accanto all’armadio ma l’interruttore non è più lì. Ero scombussolata da cima a fondo. Ma i ‘capelli’ no, erano perfetti! Non miei, in effetti… ma perfetti.
Che poi, io credo di non essermi mai vantata tanto come in quel periodo.
Ho scoperto, tra l’altro, che il rosso fuoco sulle labbra, che non avevo mai osato, in realtà mi dona molto più del rosso geranio che per una vita avevo usato.
(Quando si lotta contro il tempo si mette in gioco ogni possibile risorsa per confonderlo.)
Era di mia figlia il rossetto nuovo. Lei è stata con me. Per tutto quel tempo.
Ha rubato ogni possibile parola, preteso ogni sorriso, cercato follemente ogni sguardo. Le ho dato la sua vita esattamente ventidue anni fa… ma in questi mesi le ho dato la mia anima, totalmente nuda.
Avevo bisogno di lei. Ma più ancora lei di me, della mia trasparenza e sincerità. Era necessario che vedesse come sia utile e dignitoso guardare dritto negli occhi la vita mentre ci attraversa.
Ho lasciato che mi stesse accanto perché doveva capire il valore del tempo, anche nel caso io ne fossi uscita sconfitta.
Ma il fortunato scorrere della mia storia senza tempi verbali giusti, fin qui, mi ha vista presente.
(Quando si lotta contro il tempo, la vittoria è vedersi invecchiare.)