La mossa del gatto
LEI – Lui sta di là. Chiuso da ore nella sua stanza. Ore e ore senza che da oltre la porta arrivi un rumore. Eppure, io so che lui è dentro, di sicuro seduto nella sua poltrona a fumare e guardare fuori dalla finestra.
Guardo le mie mani, tremano. Non è paura, non è rabbia. Non so cosa sia. Tremano anche le mie palpebre, umide stanche per la veglia che dura da troppo tempo.
Ho bevuto la grappa croata, da anni sta chiusa dentro lo scaffale della cucina in alto a sinistra. Forte, troppo forte per me, ma se non l’avessi bevuta avrei alterato in peggio la mia reazione, ne sono certa… Sarei andata da lui… gli avrei spiegato che non era accaduto nulla di grave… che le cose si sarebbero messe a posto, che saremmo andati a cena da Luisa come stabilito, come se nulla fosse accaduto.
Senza alcol le cose si sarebbero sistemate, come sempre. Questa volta no!
La mia pelle respira l’aria calda della stanza. Il divano di fronte è illuminato dai raggi di sole. Ma non sudo, non sento caldo, non sento rumori, sono stanca.
Alice, bella esperienza la sua… Alice è una stronza… Alice non è una stronza… Alice è falsa…
Avrei voglia di distendermi sul letto, chiudere gli occhi, non pensare. Magari fare uno di quei sogni che appena sveglio viene da chiederti: reale o non reale? Ho vissuto davvero questo? Quale parte di me ha vissuto in quel sogno?
L’altra mattina, una settimana fa, ero in piedi in fila nell’attesa che arrivasse l’autobus per ritornare a casa. Un ragazzo, sì, un ragazzo forse di appena venti anni, mi guardava fisso con insistenza. Immaginavo che mi conoscesse, forse era stato uno dei miei alunni, di quelli di cui dimentico sempre il nome. Anche in classe, invero, mi capita spesso di non ricordare i nomi, devo fare sforzi sovrumani per cercare di collegare la resa scolastica ai loro nomi, eppure sono apparentemente tanto uguali quanto curiosamente diversi tra di loro. Basterebbero un più attento sguardo e un poco di naturale curiosità per identificarli.
No, non era un mio studente, non credo. Dovevo essere io che avevo qualcosa che non andava e lo incuriosiva?
Alla fine, arrivato il bus, sono salita. Alla partenza, guardando indietro verso la pensilina lui, rimasto giù, continuava a fissarmi, questa volta segnandomi con il dito medio in aria. Che voleva dire?
L’imprevisto che ti sfiora, che arriva improvviso senza avvisare e tutto rimane inspiegabile, non sai dire perché succede.
Non sento rumori e non ho fame. Non ho sete.
La grappa è finita, il resto rimane immobile come il bronzetto déco poggiato di fronte alla credenza. Una danzatrice in bikini con le mani incrociate verso l’alto, molto bella. Un suo regalo.
Acquistato al mercatino del sabato a Bruxelles in piazza Sablon, in quei “viaggi brevi”, così li chiama, veloci, economici, culturali, rilassanti, avvincenti. Acquista i biglietti d’aereo mesi prima per qualche decina di euro, va e ritorna. Al rientro da Bruxelles ha appeso nella sua stanza una serie di poster e foto dei quadri di Magritte, per una serata intera mi ha spiegato tutto su di lui.
Capita ogni volta che torna da questi week-end. Assisto alle sue performance che consistono in un racconto dettagliato delle città che visita. Mi dice degli spazi urbani, architettonici, sociali, gastronomici.
Puoi bere le birre più buone senza fermarti, senza spendere tanto, le accompagni con quegli stuzzichini che ti portano in piattini di porcellana…
Io mi limito ad ascoltare e intercalare: “… non mi dire?” oppure “… ma dai!” È solo lui che parla.
Come quella volta che, ritornato da Berlino nel 1989, mi raccontò per una notte intera della caduta del muro, della birra, della festa, della gioia, degli abbracci e dei pianti, dei baci scambiati per le strade con le berlinesi eccitate dall’euforia. La sua libreria quella volta si riempì di sfaldati pezzi di muro colorati, come se fosse stato lui a picconare il muro e a fare la storia.
Nulla, non sento nulla.
In estate mi porta al mare. Fa bene nuotare, dice.
A me il sole, quello forte siciliano, non piace. Sopporto solo quello della mattina, quando ancora il caldo è nascosto dietro le montagne.
Cerco di ricordare l’ultima volta che sono stata felice.
Oltre le scale sbattono le porte dell’ascensore.
Saranno i Bellafiore che escono per la giocata del venerdì sera. Accidenti! Fa buio. Dovrei accendere la luce, basterebbe allungare la mano verso il tavolino accanto al divano, premere l’interruttore e accendere la luce del lume.
Dovrei però scivolare e allungare il braccio e se non ci arrivo?
Al buio si sta bene. Starà dormendo?
Ah, come si stava bene in campagna quando brillavano le stelle al soffio dello scirocco e gli alberi sembravano invitarti alla festa per ballare con loro nella notte in cui tutto si risveglia. Ci stavo bene, in campagna. L’azienda, i campi, i trattori e poi quelle facce piene di rughe chinate e sottomesse anche quando non c’era bisogno. La fatica, quella che non si scorda neanche dopo che hai smesso di lavorare e ti resta solo guardare gli altri bagnare con il loro sudore la terra, la tua terra.
Prima… avevo le idee chiare. Molto lucido il mio futuro, ero io l’eroina e sarebbe bastato solo allungare la mano per afferrare il mondo. Dove ho sbagliato? Cosa mi sono persa per strada?
LUI – Come il solito non riesce ad affrontare nulla, sta chiusa dentro il salone. Tutta colpa di quella discussione su Alice.
Qui ho le mie cose, tutto quello che mi serve. Ho marcato questo spazio con tutto quello che mi conforta, manca la birra. Pazza e scema. Bene, bene, va bene così.
Chissà Luisa cosa aveva preparato per cena. L’avrà avvisata che non ci andremo? Cucina bene Luisa. Il mese scorso aveva preparato uno sformato che profumava di delizie orientali e una sfoglia con creme ai formaggi che non avrei smesso di mangiare.
Luisa lo fa per me. Lo capisco, le piacciono i miei apprezzamenti, mi osserva distratta per non dare a vedere agli altri che sono io il suo solo ospite. Lo sappiamo entrambi che in altre vite chissà! Potrei provarci, un corpo sensuale, da favola! Non ci riesco, le conseguenze: lui, lei, io, lei, loro, noi.
Dal vetro satinato della porta che ci separa non scorgo luci, sta al buio.
Berrei una birra. Ah, pensarci prima. Ma che vuole da me? Che ci posso fare io? Bastava parlare, chiarire, spiegare. Eh, eh no! Io ho bisogno del mio spazio.
Proprio a casa di Alice, venti anni fa, ci incontrammo la prima volta. Quella sera durante la cena ero rimasto in silenzio cercando di decifrare in lei ciò che mi sembrava speciale, percepivo di avere di fronte un mistero da svelare poco a poco. È andata così. Provavo una curiosità inconsueta e morbosa per Lei: cosa pensava, come camminava, come sceglieva i vestiti, come avrebbe fatto l’amore, come dormiva, come respirava la notte, come si struccava la sera, come avrebbe riso alle mie battute, come mi avrebbe abbracciato. Un’emozione che non avevo mai provato. Tutto il resto è stato facile. Passione e complicità.
Molte ore fa, prima che si chiudesse in salone, ero deciso ad affrontarla e una volta per tutte, stabilire che, se le cose stavano come stavano, la colpa era solo sua. Io so come dovrebbero andare le cose!
Il mio capo me lo dice sempre: Tu hai sempre qualcosa in più rispetto agli altri, una maniera di vedere le cose diverse, in modo singolare!
Troppo fumo nella stanza, dovrei aprire il balcone, ma alzarmi, fare rumore e se poi lei capisse che lo faccio per attirare la sua attenzione? Non voglio che pensi questo. Meglio di no.
Miserabile giornata. Questa poltrona è un incanto. Basta chiudere gli occhi e ti senti appeso nel vuoto, leggero come una piuma sospesa nell’aria.
Oltre le scale sbattono le porte dell’ascensore. Saranno i Bellafiore che escono per la giocata del venerdì sera.
Potrei andare a spiare per vedere se dorme ma il parquet cigola.
Il teatro era anche la sua passione, prima. Adesso dice di non sopportare il buio e la vicinanza di altre persone. Lo stare ingabbiata per qualche ora dentro il recinto della platea la innervosisce.
Per me invece il teatro è come un training autogeno. Cioè, cerco di estraniarmi e immedesimarmi in un personaggio di scena. Ne scelgo uno, di volta in volta. Lo seguo, lo scruto, lo osservo, senza lasciargli tregua. Tento di vivere, attraverso lui, le sue emozioni e il peso della recita nell’azione.
Lei sa quello che mi succede a teatro e ogni volta mi guarda come fossi un marziano o un bambino da rimproverare per la scorrettezza intrapresa. E parto, vado via, lei non viaggia in aereo.
Non esce. È buio, quasi notte. Fuori il vento sembra essersi calmato, ho sete, ho fame. Ah se avessi una birra! Conto le sigarette, ne restano sette, basteranno per qualche altra ora dopo?
L’anno scorso avevo iniziato il corso per smettere di fumare.
Giovanna, la dottoressa che guidava le sedute, sembrava disinteressarsi del fatto che io, come pure forse gli altri, circa una decina, fossimo in attesa che ci svelasse il segreto. Rimandava, sempre alla seduta successiva, la spiegazione sul metodo preciso per odiare la sigaretta e smettere di fumare. Troppo carina e sexy, tra l’altro, per evitare frequenti distrazioni. Un pomeriggio, forse era la quarta volta che ci ritrovavamo, mi sono alzato e le ho gridato: SENTI, o mi dici adesso, ORA, come fare per smettere di fumare o non vengo più e vai a fare in culo.
Ancora adesso mi viene da ridere. Non sono così. Chissà cosa mi ha preso. Quasi sveniva, il rossore dalla fronte le scendeva fin sotto il collo, la sua linea sensuale sembrava incurvarsi svanendo lungo il pavimento. Fuori! Stronzo!
Ho fame. Ho sete. Vorrei una birra. E che caz…!!!