Derive: voci graffianti dalla banlieue parigina
Chi fugge da una guerra e chi scappa dalla povertà, chi corre via da una natura avversa che ciclicamente fa fuori i propri cari.
Tre è il numero perfetto, e tre sono le declinazioni di migrazione che Pascal Manoukian racconta in “Derive”, edito da 66th&2nd. La Somalia, la Moldavia e il Bangladesh si muovono negli spazi ristretti di Villeneuve-le-Roi, nella periferia parigina.
Quelli che si intravedono sono scorci di una città ripresa dai suoi angoli più nascosti. Virgil, Chanchal, Assan e la figlia Iman sono telecamere nascoste, testimonianze clandestine, sono uomini-topi che vivono in giacigli, si riparano in fosse e buche quasi fossero temporanee tombe, prendono botte senza motivo, sputi e piscia in faccia.
Come una burrnesh, una vergine giurata albanese, la piccola somala Iman intraprende il viaggio da Mogadiscio vestita da ragazzino, spaventata e già conscia, da quando la hanno tagliata e cucita nelle parti più intime, che vivere fa male. Virgil ogni giorno si seppellisce nel pianale di un camion fino a sparire, fra i boschi dove nessuno mai andrà a cercarlo, per tornare ogni mattina operativo e garantire una speranza alla sua famiglia, in Moldavia, dove ogni giorno va il suo pensiero per i figli.
Chanchal, che per istinto naturale è portato per l’attesa, vende fiori mantenendo impressa nella mente l’immagine di quelle mucche squarciate e della bimba conficcata come uno “spaventapasseri di soli tre anni” per colpa del ciclico apvipuntamento con i monsoni. “La geografia forgia i caratteri”, sostiene Manoukian, e in effetti la pazienza che Chanchal ha praticato stringendo i denti quando la natura gioca scherzi crudeli è la stessa che mantiene camminando per ore la sera, nella speranza di vendere qualcuna delle sue rose ai passanti, anche se il suo sogno in Europa è di diventare lavapiatti.
La famiglia lo ha scelto, in lui ha riposto le sue speranze, lo ha incaricato di una missione importante, e l’uomo lo sa bene e quindi accetta a denti stretti i quotidiani svilimenti. Pascal Manoukian non si fa scrupoli ad usare parole forti ed è raro che la sottoscritta esiti nell’avanzare con una lettura troppo reale per essere ingerita tutta d’un colpo.
Ma un reporter di guerra se lo può permettere: il lettore sa che le sue scelte non sono mosse dalla voglia di dipingere poesie dai toni duri ma che tutto ciò che è descritto proviene da esperienze che l’autore ha toccato con mano nei vent’anni che, fra il 1975 e il 1995, lo hanno portato in giro per il mondo.
“Derive” di Pascal Manoukian si sente sulla pelle come una lama e, leggendolo, ci si accorge che non è un sentimentalismo retorico e facile, il suo, ma che le vicende che l’autore ambienta nel 1992 sono oggi più vere che mai.
Soprattutto, il reporter fa passare l’idea fondamentale che non ha senso dividere con matita e righello chi lascia il proprio paese per farlo rientrare in una categoria prestabilita: di fuggire abbiamo il diritto tutti, che a farci andare siano proiettili, monsoni o un paese annientato proprio quando la situazione doveva migliorare, come è per la Moldavia. Proprio in questo senso è cruciale la scelta dell’anno: nel 1992, infatti, si stipulano gli accordi di Schengen, la Somalia si disintegra per lasciare il potere a un islamismo violento, il blocco comunista è sostituito da un liberalismo che genera ancora più fame e povertà portando alcuni a rimpiangere il totalitarismo e, in Bangladesh, onde anomale e clima monsonico uccidono 500.000 vite.
Purtuttavia, c’è sempre un briciolo di speranza nel viaggio e in chi decide di viaggiare, seppure nella cecità della disperazione.
“In Somalia il viaggio è una fonte di apprendimento, saggezza e crescita personale. Sostituisce la scuola ed è necessario e importante per la stessa comunità […] un investimento su bravura, buona sorte e capacità di cavarsela. Una lotteria del povero.”
O, anche, una roulette russa secondo le rigide regole del darwinismo sociale. I giovani che masticano khat saranno avvantaggiati nell’avanzamento del loro percorso la cui mèta è ancora troppo lontana all’orizzonte. Chi non fa uso di sostanze per superare gli umanissimi limiti rimarrà bloccato nell’incubo in cui la follia degli stupefacenti è l’unica via di uscita.
Se il romanzo di Manoukian non si limita a suggerire la violenza ma la urla chiara e forte, non mancano parentesi in cui il lettore può sorridere, come di fronte ad un bangladese che ignora l’esistenza sulla cartina geografica della Moldavia e viceversa, o come nell’amara discrepanza nel significato che due culture conferiscono a uno stesso simbolo -in questo caso la svastica-, o ancora nell’ignoranza che confonde polacchi romeni ungheresi moldavi ucraini e rom. Soprattutto: romeni e rom.
L’idea, è che tu, lettore, arrivato a questo punto, sia curioso di chiarire l’enigma della svastica e dei suoi molteplici significati. Io consiglio di farlo leggendo “Derive”, ma di leggerlo lentamente, a piccole dosi, perché è un romanzo a tre voci che graffia.