Ascoltavo gli U2 nel Fisher-Price
Alcuni giorni fa mi sono trovato ad aiutare un giovanissimo ragazzo negli esercizi di geometria. Non sono mai stato un asso dei piani ortogonali, ma l’esercizio era piuttosto semplice. In pratica si trattava di individuare quale tra due rette parallele avesse la dimensione maggiore. Le due rette erano posizionate in modo tale da trarre in inganno l’occhio dello studente: la prima terminava più a destra della seconda, così che a prima vista poteva sembrare effettivamente più lunga, ma a ben guardare ci si poteva accorgere come la seconda iniziasse il suo percorso in un punto ben più a sinistra della prima. Per quanto lo scolaro ripetesse che considerava più lunga la prima, la mia risposta ha continuato a essere no.
L’ho lasciato disperare qualche attimo sul libro di testo e mi sono guardato attorno. Davanti a noi c’erano alcune mensole e su una di queste, dimenticato da chissà chi e quando, faceva bella mostra di sé un Fisher-Price. Per chi non ha vissuto l’infanzia tra ottanta e novanta, il Fisher-Price era un piccolo mangiacassette con minuscola e gracchiante cassa incorporata. Uno stereo portatile per poppanti, insomma.
Io possedevo un Fisher-Price. Ricevetti quell’arnese che andavo ancora a gattoni. Lo ricordo riprodurre Bianco Natale e, di questo però non ho certezza, qualche sigla di cartone animato cantata da Cristina d’Avena. Per anni quel Fisher-Price rimase l’unico sistema di riproduzione audio della mia casa. C’erano televisioni, videoregistratori e radioline FM. Ma per la musica, insomma, non c’era spazio.
All’inizio mi interessava assai poco. Non ero stato educato alla musica e ne sentivo una necessità piuttosto limitata.
Sentivo la necessità di creare un mio percorso musicale, avere un gruppo preferito, scrivere il nome di quel gruppo su ogni pagina del mio diario
Così un giorno entrai in un negozio di dischi con un paio di spicci nelle mani sudate. Mi muovevo tra gli scaffali con la sicurezza di un giovane gatto in un canile di scafatissimi pitbull. Non volevo le cose che possedevano i miei compagni, non mi è mai piaciuto fare quello che fanno gli altri. Ma non conoscevo nessun artista. Stavo per arrendermi all’evidenza di un’ignoranza totale quando vidi una parola stampata su una musicassetta. October. Il mio mese di nascita. Pure il gruppo mi significava qualcosa. Un film, forse: Volevamo essere gli U2, o una cosa del genere. Ricordavo il cartellone pubblicitario appeso da qualche parte in città.
Mi risultò un po’ indigesto quell’album. Il suono metallico del Fisher-Price, poi, non aiutava. E gli U2 ai miei coetanei non interessavano molto, quindi non scalai posizione nel microcosmo sociale della mia classe. Eppure ebbi l’impressione che qualcosa era cambiato. Qualche anno più tardi avrei avuto la cultura musicale più sviluppata tra tutti coloro che componevano l’allora sezione F. E la consapevolezza di essere stato uno dei pochi a questo mondo ad aver costretto la voce di Bono Vox in un Fisher-Price.
Il mio giovane amico non è riuscito a capire il motivo per cui la seconda retta fosse più lunga della prima. E questo gli ha provocato una grande frustrazione. Allora gli ho spiegato che le rette non partono tutte dallo stesso punto. Alcune devono fare un pochino di strada in più. E’ fatica, tanta, però alla fine tutta quella strada finisce per farle risultare più lunghe delle altre.
Come me, mi ha detto lui quando finalmente ha capito.
Io gli ho sorriso.
E anche come me, ho pensato.
O forse sperato.