Migranti climatici, non solo finzione
Certe formulazioni derivano soltanto dall’assenza.
“Era buonissima, quell’acqua. Da anni Livio non sentiva più in bocca quel sapore e quella freschezza, e all’improvviso brandelli sparsi della sua vita cominciarono a piovergli tumultuosamente davanti agli occhi, senza alcun comprensibile ordine, suoni, sapori, immagini, emozioni di una giornata estiva da bambino al parco e di una fontanella sotto il tiglio, di Leila che lo chiamava sotto la doccia per fare l’amore con lei, di sua madre che gettava un bicchiere d’acqua sul viso del padre e si alzava da tavola infuriata, e allora pensò a quell’acqua come alla madeleine di Proust, e subito dopo, inevitabilmente, come una maledizione, alle diverse aree del cervello che si stavano riattivando per richiamare e assemblare quei suoni, sapori, immagini, emozioni in modo che ne venissero fuori ricordi completi e non un insieme di frammenti scollegati…”
No, non si tratta di quella che i seguaci della pseudoscienza omeopatica chiamano “memoria dell’acqua”: nel romanzo di Bruno Arpaia, “Qualcosa, là fuori” (Guanda, 2016) , a mancare è veramente l’acqua, in un mondo devastato da disastri climatici e popolato da disperati in fuga verso nord. Quando Livio si trova a bagnare di nuovo e labbra nell’acqua, nella sua mente esplode il mondo che si è lasciato alle spalle.
È così che avanza la narrazione di Arpaia: ambientando storie di umanissima disperazione in un panorama verosimile che fonde un presente di cui siamo spettatori -quello della migrazione, della fuga dal proprio paese- a un futuro verso cui ci dirigiamo -surriscaldamento globale, con tutto ciò che ne deriverebbe-. Il romanzo, come altri dell’autore, nasce da un’idea forte, ma va ben oltre la riflessione o lo stampo saggistico o moralista: alternando due piani temporali, le discussioni sul clima fra amici sanno di presagio quando, nel paragrafo successivo, si legge della realtà devastante cui lo stesso Livio deve sopravvivere:
“La donna aveva il vestito oscenamente sollevato sulle cosce piene di varici bluastre e la testa sfondata, appoggiata su una pozza di sangue”
Immagini violente compaiono in paesaggi desolati:
“Sedie di plastica sgangherate, cataste di scatole sfondate, arnesi e materassi inservibili, ombrelloni ripiegati, pile di vecchi libri di carta”
L’uso di un linguaggio poetico, assonante, per evocare immagini disperate di una realtà in cui le voci si uniscono nella disperazione e tutto sembra partecipare ad un unico silenzio di morte. Le persone, gli oggetti, la natura stessa, che per una volta non corrisponde alla matrigna leopardiana, sovrana e onnipotente, ma che si piega insieme all’uomo, con lui soffre, con lui muore, mentre muoiono anche gli oggetti, carichi dei segni del tempo e dell’assenza di cura. Si fondono i fuggiaschi, nella loro fuga nella Svizzera, sottomessi al pagamento di pedaggi per raggiungere la bramata Scandinavia, ultima isola felice della Terra. Ci sono latinos, arabi, americani, europei, ci sono uomini, donne, padri che hanno perso moglie e figlia, uomini innamorati di uomini e donne innamorate di donne e forse questa disperata fratellanza è l’unico stralcio di speranza che si respira a tratti nelle giornate raccontate da Arpaia. Una fratellanza sporadica, perché l’involuzione climatica ha scatenato prevedibili conseguenze: povertà, morte, formazione di gruppi estremisti, scontri etnici. Si spara per proteggere i propri territori, fra gli ultimi ancora vivibili, si diventa sciacalli per organizzare viaggi della speranza che fin troppo ricordano i nostri odierni scafisti, eccezion fatta per il fatto che qui sono unicamente donne.
Se Marta, Sara, Miguel sono speranzosi e i loro compagni ancora combattivi, vediamo Livio sbiadire pian piano, dilaniato dalla voglia di morire e dall’assenza di coraggio per farla finita: la motivazione che lo ha spinto per anni in lunghe discussioni contro il cinismo dell’amico Victor hanno smesso di essere, mentre come un cencio avanza nella sua fuga disillusa.
Oltre all’acqua, preziosa e rara, emerge ripetuta l’evocazione della luce, sotto forma di bagliori misteriosi e invadenti.
“La notte era sempre notte, ma una falce di luna incomprensibile si era levata su quella devastazione, intrufolandosi nella caligine che incombeva sui resti dell’accampamento insieme a un odore di bruciato e di sangue”
Quello di Arpaia vuole essere un monito che non sfocia nell’inutile allarmismo ma che si limiti a svegliare le coscienze. Oltre a suggerire suggestioni sensoriali di vario tipo attraverso le immagini narrative, l’autore offre, tramite i personaggi, l’amara realtà della teoria dei giochi applicata ai mutamenti climatici:
“Per come la vedrebbe un economista, i politici hanno anche una giustificazione razionale per non muovere un dito (…) Dal punto di vista della teoria dei giochi la strategia ottimale per ogni nazione è fare in modo che siano gli altri a ridurre le emissioni (…) Se qualcuno, spendendo o perdendo un sacco di soldi, adottasse delle misure serie per non immettere carbonio nell’atmosfera, tutti ne trarrebbero benefici, però i costi li pagherebbe soltanto lui. Perciò, alla fine, in mancanza di un vero governo sovranazionale, tutti aspettano che siano gli altri fare la prima mossa, e il risultato è quello che sappiamo.”
Romanzo quasi panico, quello di Arpaia non appare artificioso quando dal tono saggistico torna nuovamente sul piano dell’umano: gli uomini in fuga non sono mai figurine, burattini caricaturali, non perdono mai il loro spessore psicologico. Riflettono sullo scarto fra realtà percepita e realtà oggettiva, sull’incertezza che consegue questo scarto. Quel bagliore c’è davvero, là fuori, o lo vede solo Livio? Cosa è il tempo? Che grado di realtà c’è, nei ricordi personali?
“Se i nostri ricordi sono sempre falsi, o alterati, allora noi chi siamo? Cosa ne è della nostra identità?” […] “In qualche modo, l’Io è un’invenzione del nostro cervello, anzi, è la sua migliore invenzione, la sua storia più di successo, diciamo il suo bestseller…”
E, se la finzione entra in gioco quando vediamo che il riscaldamento globale sembra potersi risolvere con semplici molecole di acido solforico iniettate nell’atmosfera che, con il loro potere riflettente, rimandano indietro parte della luce solare, arrivati all’ultima pagina del libro siamo ben coscienti che le 224 pagine del romanzo non sono state soltanto un divertissement letterario.
Nessuna postfazione, infatti, a chiudere il lavoro di Arpaia, ma un’ “Avvertenza”, che richiama ai collegamenti fra il mondo di finzione che ha narrato e la nostra quotidiana realtà. Quella dei migranti climatici e ambientali, infatti, è una storia che esiste già e che nei prossimi anni, se non agiamo fin da subito, non farà che entrare sempre più nelle nostre vite.