Sapore della vita
“La vita deve avere sapore. Un sapore buono, un sapore che riconosciamo. Un sapore che ci pacifica come un piatto di casa, quelli delle nostre tradizioni. In fondo, per costruire una vita, per far sì che sia la nostra, dobbiamo fare quello che facciamo quando vogliamo preparare con cura un piatto buono: cerchiamo una ricetta valida e tutti gli ingredienti migliori per metterla in pratica. Questo vale per qualsiasi vita ma tanto più per quella di chi è lontano dalle proprie origini e dai luoghi familiari. Integrarsi, sentirsi accolti, entrare a fare parte di una comunità nuova: questi avvenimenti complessi passano spesso per i sapori della cucina, per le pietanze e i frutti della terra. Per le ricette degli avi, i ricordi dell’infanzia, le soddisfazioni del palato. Per questo ho scelto di parlare di integrazione, di appartenenza e di migrazioni in questo modo semplice e sincero, partendo dalla sfera degli affetti e dei legami, e quindi anche attraverso le ricette che ne fanno parte. Il racconto, pur non completamente autobiografico, attinge largamente alla mia esperienza personale e alla storia della mia famiglia. Una famiglia pugliese trapiantata a Como, dove io sono nata per poi trasferirmi giovane donna in Germania e rimanervi sino a qui.”
E’ questo che mi dice l’autrice Valeria Vairo al telefono, mentre parliamo del suo libro (testo a fronte con traduzione tedesca): “Il sapore della vita – Der Geschmack des Lebens”.
Inutile dire che a chi ha vissuto in prima persona questa spaccatura tra culture, realtà geografiche e stili di vita – io come Valeria ho lasciato l’Italia giovanissima per passare trenta anni a Monaco di Baviera, città dove l’ho incontrata e dove lei ancora vive – il libro pare una fotografia dell’animo.
Per Valeria, a dire il vero, migranti si nasce, non si diventa (cit):
“A volte penso che al mondo ci siano due tipi di persone: gli uomini radice e gli uomini foglia.
Gli uomini radice hanno sempre vissuto, vivono e vivranno nello stesso luogo, un luogo che amano più di qualsiasi altro. Lì hanno i loro amici, il barbiere, il prete e il medico i famiglia, i loro ricordi e le loro certezze, una vita stabile e rassicurante. (…)
Diversi sono gli uomini foglia. Basta una folata di vento e si ritrovano all’improvviso nei posti più disparati. Spesso sono vissuti in famiglie che nel corso dei secoli si sono spostate da un paese all’altro…”
Tuttavia la donna protagonista del libro, Giulia, così come la sua famiglia di origine, sembrano non appartenere completamente a nessuna di queste due tipologie umane. Coraggiosi i genitori di Giulia si trasferiscono dalla Puglia al nord per cercare migliori chance e crescere famiglia. Forti dei loro affetti e delle radici si prodigano per integrarsi nella nuova realtà e impiegano la loro intelligenza e creatività per rafforzare i contatti, per imparare nuove forme di accoglienza e anche nuove ricette. Sono proprio la forza delle tradizioni la nostalgia della propria terra, i colori, i sapori, la cultura tramandata in famiglia e la nostalgia del ricordo a fare da fondamento al loro atteggiamento di apertura verso la nuova vita.
“scambio emotivo-gastronomico, dialogo a suon di prelibatezze”
Le pitture del padre di Giulia possono spostare piano il soggetto dalle radici degli ulivi secolari pugliesi alle luci tremule del lago, così come le ricette e gli acquisti per la cucina della madre – che cercano e raggiungono un equilibrio tra i pizzoccheri e le orecchiette alle cime di rapa, tra le bugie e le cartellate pugliesi – o gli abiti cuciti in casa da lei, che riescono a diventare persino un bellissima maschera da Lucia Mondella, raccontano una storia di tolleranza e di ricerca di contatto tra culture.
Giulia saprà raccogliere da grande questa lezione per integrarsi al di là di un confine nazionale, quel Brennero che lei definisce sapientemente (cit):
“non solo un valico di frontiera geografico per me ma un varco psicologico, l’entrata a un diverso mondo dei sensi”.
Di là e di qua da quel solco da attraversare per spostarsi tra le due parti comunicanti della propria identità, Giulia riuscirà a non perdersi, anzi suggellerà con le ricette preferite e i cibi amati della nuova tradizione persino la sua storia d’amore con Thomas, che l’ha portata a Monaco. Uno spostamento per amore che diventa immediatamente la possibilità di un lavoro, e un nuovo processo di riconoscimento, l’inizio di quello (cit) “scambio emotivo-gastronomico, dialogo a suon di prelibatezze” che Giulia ha imparato da sua madre e la vicina di casa, la signora Castelli, nell’infanzia.
quel Brennero che lei definisce sapientemente (cit): “non solo un valico di frontiera geografico per me ma un varco psicologico, l’entrata a un diverso mondo dei sensi”.
Lo fa non andando a tirare fuori espedienti narrativi complicati o storie rocambolesche, ma mantenendo i piedi più per terra possibile. Le basta attingere alla storia personale e alla storia italiana. Riesce da oltre confine a realizzare meglio una concretezza che viene tutta dal nostro passato, dal ricordo di chi eravamo.
Così, se da piccola la sua diaspora era tra nord e sud, si accorge all’estero che questa spaccatura forse non esiste, che esiste in fondo l’Italia come una tavolozza di molti colori – profumati e attraenti pari a quelli conservati nella meravigliosa stanza dove suo padre dipingeva – ma che formano un unicum; deve solo mescolarli insieme a quelli della nuova realtà per tirare fuori una ricetta tutta sua, nuova e antica, e dare un buon sapore alla vita. Un sapore di appartenenza.
La traduzione in lingua tedesca riesce a dare conto del tono linguistico scelto dalla Vairo per l’uso della lingua italiana. Il racconto è corredato da ricette e consigli per l’accompagnamento con vini – non affatto per strizzare l’occhio alla nuova passione europea per grandi chef e ghiribizzi culinari – ma coltivando invece la tradizione dei piatti di famiglia tramandati oralmente e legati alle identità affettive.
La pagina di Valeria Vairo e Il sapore della vita