Equilibristi sociali: sentire il vuoto e non averne paura
Che il lavoro sociale dovrebbe rendere beneficio alla comunità tutta e non soltanto alle classi svantaggiate dovrebbe essere realtà condivisa, eppure non lo è. Non lo è perché il Paese in cui viviamo ha probabilmente sgretolato l’idea stessa di vita comunitaria, facendosi pian piano sempre più individualista, un agglomerato di “io” irrequieti.
Andrea Morniroli, autore di “Equilibristi”, edito dal Gruppo Abele per la sua collana I Ricci, porta alla luce vari esempi: su tutte, quello della salute delle donne prostitute che si prostituiscono in strada. Pochi prestano attenzione alle loro sorti, eppure una maggior cura nei loro confronti andrebbe a giovare non soltanto a loro ma anche ai 3.000 uomini che ogni sera soltanto a Napoli cercano sesso a pagamento, alle loro fidanzate, compagne e mogli.
Il fatto che oggi la divisione fra chi ha un determinato bisogno e chi quel bisogno lo colma sia sempre meno netta ci fa capire che c’è necessità di reinventare il welfare e, ancora prima, di costruire una nuova idea di comunità. Cito Morniroli:
“Sono sempre di più le fasce di persone che, pur non portando con sé particolari situazioni di difficoltà, semplicemente non reggono o non riescono ad arginare le spinte verso il basso di una crisi onnivora che, a volte lentamente e senza particolari preavvisi, mastica risorse, produce ansia, impedisce di avere l’idea di un possibile futuro. Sono anziani soli o con la responsabilità e il peso di essere l’unico sostegno economico di famiglie allargate. Sono persone, soprattutto uomini, che a seguito di separazioni e divorzi devono abbandonare la casa e non sanno dove andare, e spesso non reggono i costi economici di tali situazioni. Sono maschi adulti, a bassa scolarità, ultraquarantenni espulsi da un mercato del lavoro che non prevede, spesso perché sommerso, alcuna forma di tutela o ammortizzazione sociale. Sono famiglie numerose monoreddito in cui nemmeno il “familismo coatto” basta più a sopravvivere. Sono ragazze e ragazzi, a volte giovani, che non studiano più e non cercano più né opportunità formative, né un lavoro. Ancora, sono i tanti migranti che hanno visto fallire il loro progetto migratorio e che vivono in strada, o comunque in situazioni di autoghettizzazione e di precarietà assoluta, perché privi delle risorse necessarie per ricominciare e, allo stesso tempo, incapaci di tornare al paese da “sconfitti”
Le lacune che gli autori dei saggi contenuti nel volume curato da Morniroli individuano stanno nella politica scelta dalla classe dirigente ma anche nell’economia collassata che ha fatto precipitare l’Europa nella crisi e nel precariato. Come può, infatti, un operatore sociale precario prendersi cura di persone che richiedono un’assistenza a lungo termine? Come possono gli assistiti aprirsi per intraprendere un percorso basato sulla fiducia, se quella sudatissima fiducia viene passata da un operatore all’altro come un testimone in una staffetta? Che ne è di quella serie di diritti che lo Stato dovrebbe garantire e che invece finisce per renderli monetizzabili e quindi élitari? Come gestire l’ibridazione del lavoro sociale nel caso dell’emergere delle cosiddette imprese sociali?
Queste realtà nascono sì come risposta alternativa al silenzio delle istituzioni, ma non siamo forse di fronte all’ascesa, dietro la facciata di un presunto lavoro sociale, di categorie derivate dalla stessa finanza che ha preteso il quasi annullamento della sfera sociale? L’idea di privatizzazioni che operino per la collettività è un ossimoro dall’origine o ci pone di fronte alla possibilità di nuove risposte per nuove domande? Corriamo, affidandoci a queste nuove voci, il rischio di istituzionalizzare un approccio assistenziale e compassionevole che non mira ad annullare le disuguaglianze di cui si nutre per sopravvivere in quanto impresa?
Così come la crisi deve farsi leva per un cambiamento, la povertà crescente impone al lavoro sociale di uscire dai confini che lo hanno sempre circoscritto L’operatore sociale non è più da concepirsi come figura marginale e tecnica ma come professionista che mette a disposizione la propria competenza per una nuova gestione di spazi pubblici, dell’economia, degli stili di vita quotidiani, dello sviluppo comunitario e sostenibile, un ricercatore di best practices. Tutto questo in vista di una “possibile economia civile”.
Invece accade che gli operatori siano sempre più distanti dal contesto quotidiani, le loro attività siano poco note, a volte addirittura agli stessi addetti ai lavori, e che le loro attività siano scarsamente definite, che la confusione generata fra prestazioni, procedure e gestione delle loro relazioni, denominazioni fluttuanti per indicare le loro attività perlopiù immateriali, generi un deficit di rappresentazione -cito Leopoldo Grosso– e agglomeri tutto nell’ “universo magmatico del cosiddetto volontariato”, facendo svanire i singoli percorsi, le esperienze, le aree di lavoro e la professionalità acquisita.
La disattenzione da parte della società e la precarietà lavorativa portano l’operatore sociale ad abbassare gli standard di azione, arrivando a porsi, come suggerisce Giacomo Panizza, come “operatore sociale della mutua”. L’autore riporta il caso dei tagli alla Asp di Catanzaro che ha colpito disabili cessando l’erogazioni di prestazioni regolarmente autorizzate.
Non manca un capitolo, a cura di Raffaella Palladino, sulle questioni di genere. L’autrice racconta la storia di Emanuela e la pone come case study di tutti quei progetti di ospitalità e protezione di donne vittime di violenza. Racconta di quel telefonino che troppo spesso suona anche nel cuore della notte chiamando le operatrici a fondere la vita privata e la missione di sentinella pronta a denunciare violenze ed agire in prima persone, e individua nell’approccio al lavoro sociale in questo campo -ma non solo- tre nodi critici: l’allontanamento progressivo del lavoro sociale dal piano politico, lo “svaporamento” della mission e la separazione sempre più netta fra sfera delle emozioni private e rigida razionalità professionale e, in ultimo, il gap inerente l’autonarrazione da parte di chi opera nel sociale.
Leggendo la raccolta di saggi emerge sì la necessità di soluzioni inedite, di una maggiore consapevolezza da parte degli operatori sociali ma vengono anche individuate alcune linee guida per riscrivere il lavoro sociale.
Benché sempre più spesso gli operatori gettino nel cestino professionalità e competenza, anni di esperienza per fare altro perché lavorano in nero e sottopagato, anche se spesso la mancanza di figure professionalmente preparate a lavorare nel sociale porti ad emergere in questo stesso campo personaggi che si improvvisano in una sfera delicata come è quella del lavoro sociale, gli operatori sociali non sono soltanto anime sognatrici. Tanti sono quelli che L.Grosso chiama gli “operatori sociali non dormienti”, risposta all’appiattimento della categoria. Il suggerimento unanime è di investire sul racconto di sé a chi sta fuori, non chiudersi nella propria operatività, prestare attenzione non solo ai destinatari immediati ma a come si è percepiti fuori. La crisi c’è e questo è indubbio ma, come da etimologia, può e deve segnare l’inizio di un cambiamento radicale, la reinvenzione di un sistema che ha lasciato emergere i passi falsi che si sono accumulati uno sull’altro.
Occorre reinventare una comunità operando attraverso tre parole chiave: sensibilizzare, coinvolgere, responsabilizzare. La comunità deve basarsi sull’inclusione e, come suggerito dagli autori, coinvolgere tutti:
“Come ogni altro, coloro che si trovano in difficoltà son titolati a compartecipare alla costruzione del bene comune. Hanno il diritto di dare e non solo di ricevere. Va loro riconosciuta la dignità di poter rendere effettive le proprie capacità, comprese quelle ancora nascoste e inimmaginabili. Questi passi in avanti si ottengono col lavoro sociale.”
Sebbene è auspicabile l’assegnazione di un reddito di inclusione, l’azione di assistenza monetaria da sola non basta, c’è bisogno di politiche attive e partecipate.
In questo contesto, l’operatore sociale ha un ruolo fondamentale, a lui spetta lo sforzo di superare la percezione di sé come sopravvissuto in una precarietà comune ai propri assistiti.
Come suggerisce Francesco di Giovanni, “occorre sentire il vuoto e non averne paura”.