Giorgia
È vero, a volte basta poco per conoscersi, altre non sono sufficienti anni. (Io credevo che ci conoscessimo abbastanza).
Ho sete, ho fame.
Non è stato necessario che chiedessi nulla, non l’ho mai fatto. Forse tu t’aspettavi che io scalciassi un po’, sapevi già come funzionava; quando lo facevo non capivo se tu mi odiavi per quel bussare improvviso ad una porta che sarebbe rimasta chiusa o per il fatto che potessi davvero chiederti qualcosa.
C’erano giorni in cui la tua infelicità mi giungeva come un sapore amaro, mi irrigidiva attraversandomi le vene e la sottile trama della mia pelle.
C’erano giorni in cui la tua infelicità mi giungeva come un sapore amaro, mi irrigidiva attraversandomi le vene e la sottile trama della mia pelle. Ricordo un giorno invece una musica bellissima, allora ho capito che oltre il silenzio in cui cercavo spazio, esisteva un luogo di sonorità e note trasparenti dove la pace era preludio di felicità.
Il mare che mi cullava dolcemente sapeva divenire tempesta. Avevo imparato a riconoscere e ad amare la tua voce, mi confondeva l’aggiungersi di un’altra aspra e forte, tu tremavi, tutto il mio mondo vibrava. Era la tua voce?
Sognavo. Sognavo universi e stelle e in queste ci somigliavamo. Stessi occhi grandi, tu il corpo snello di chi conosce una velocità che è figlia della paura. Hai paura?
Il tuo smarrimento non è mai stato il mio, io mi fidavo. Io ti amavo
Le mie mani poco a poco hanno preso misure, distanze, in un incastro di tempi e luoghi che cominciavano a mutare. In realtà mutavo io e comprendevo nella mia bolla di felicità assoluta che restava poco tempo per amarci sul serio.
Il tuo smarrimento non è mai stato il mio, io mi fidavo. Io ti amavo.
Amare ed affidarsi sono la stessa cosa, due pagine unite dalla pioggia, si fondono parole e inchiostro e il senso è un segno incomprensibile.
Grida, urla, quelle sono state l’accoglienza al mio stupore per la vita. Ho pianto senza forza, come un gatto debole, (la madre lo divora o lo spinge ai margini), non c’è posto per i deboli. Io sono stata forte per quel che ho potuto. Sporca di sangue e lacrime. Neanche la luce è stata mia. Un lampo che non ho capito e poi un sacco, no, era una borsa scura, non ricordo carezze. Gesti rapidi. Paura.
Le mie labbra stanno diventando bluastre, non sorrido, ho fame, ma il mio grido lamenta l’assenza, il rifiuto. Un tonfo e sono caduta su altri rifiuti, oggetti sconosciuti, duri, maleodoranti. Mi agito finché ce la faccio, e le pareti d’acciaio diventano il secondo ventre. Sono stati furbi, non mi sente nessuno.
Cedo, non riesco a respirare, apro la bocca e ingoio il niente. Dove sei?
Quando un viso stravolto si affaccia nel buco nero spero sia tu. No.
Mi dico è tornata, è qui. No. Non ci sei.
Adesso l’uomo grida, lui sì che ha voce, e trema e mi afferra e mi solleva e chiede aiuto, ecco così si fa, ma io non ce la faccio. Gridiamo insieme, io sempre più piano.
Muoio in un ospedale di questa città grande, pietosa ed impietosa. Muoio sola, stanca. Muoio.
Grata per non aver chiuso i miei occhi nel buio fetido, un sole novembrino e un uomo che vive di avanzi altrui mi hanno fatto da madre.
Ho camminato su quel marciapiede, sono passata accanto al cassonetto, ti chiedo scusa Giorgia per non averti udito. Oggi avresti quasi due anni.