In cerca di me
In cerca di me
Sola me ne vo’ per la città
Passo fra la folla che non sa
Che non vede il mio dolore
Cercando te sognando te
Che più non ho.
Sono i versi di un’antica canzone che la radio mandava in onda agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, ma che molti cantanti di tempi più recenti hanno ripreso ad interpretare rendendone versioni più moderne, cover, come si dice adesso, che ne fanno un evergreen della musica leggera. Io l’ascoltai per la prima volta ch’ero una bambina, però mi rimase nella memoria non so per quale misteriosa ragione. Erano forse le parole (Ogni viso guardo non sei tu/ ogni voce ascolto non sei tu/ dove sei perduto amore) che raccontavano di una donna che cercava il suo amore perduto nella polvere della distruzione bellica, aspettando di riconoscerlo nel volto di ogni uomo che incontrava. O forse la musica, dal registro jazzistico, che accompagnava un testo colmo di malinconia, di speranza delusa, di ricordi.
Diventata adulta, quella canzone andò sperdendosi nella memoria, sostituita da musiche più moderne, più adeguate allo spirito del mio tempo. Pure, quando ogni tanto tornavo a canticchiare quel ritornello non potevo fare a meno di associarlo agli anni della mia infanzia, ai miei genitori che ci raccontavano quello che avevano vissuto durante la guerra e che aveva cambiato la loro vita. Niente era stato più come prima. Inutile cercare nei volti della gente quello di chi avevi amato, perché non esisteva più o se esisteva era diventato un altro. Provavo un curioso senso di immedesimazione in quello stato di smarrimento che la canzone raccontava, in quella atmosfera nostalgica per quel “qualcuno” che era irrimediabilmente perduto. Fino a quando non mi capitò di assistere alla proiezione del film “Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio. Un film dal linguaggio cinematografico asciutto, dai dialoghi scarni, spesso sostituiti dalla musica e dalle immagini.
Un film in un certo senso felliniano, con citazioni e rimandi all’arte del regista riminese. La trama, leggermente sfilacciata, all’inizio può sembrare fuorviante ma proseguendo nella visione i fili si riannodano. In breve, tratta di un regista cinematografico che per sfuggire ad una denuncia per violenza sessuale si rifugia in Sicilia e a Cefalù viene a contatto con un principe che lo incarica di dirigere la cerimonia nuziale della figlia. Un matrimonio che la ragazza non vuole ma che è costretta a fare per assecondare la volontà del padre. Affascinato dalla bellezza e dalla sensibilità della donna il regista cerca di sottrarla allo squallido destino di quel matrimonio e alla fine i due riescono a scappare: lei da quelle nozze indesiderate e l’uomo dal padre di lei che lo vuole morto. Nella scena finale stanno entrambi su un treno ma in due vagoni diversi, ciascuno per suo conto, e sorridono entrambi mentre una voce fuori campo canta:”Sola me ne vo per la città/passo fra le gente che non sa…” Quel canto mi scatenò un’emozione che sfociò in uno stato di struggimento. Improvvisamente mi sembrò di trovare un senso nuovo a quelle parole che raccontavano di un amore perduto e cercato sulle strade che lo avevano visto vivere. Compresi che le parole “sola me ne vo” non erano la tristezza di una perdita sentimentale, almeno non solo questo, ma anche il canto liberatorio dalle storie che ci rendono in qualche modo schiavi e l’inizio di un cammino nuovo. Era un cercare se stessi nel labirinto delle vicende che ci travolgono, qualche volta anche nostro malgrado.