Agota
Quel giorno Agota aveva compreso subito che c’era qualcosa di strano. Aveva annusato l’aria. I gabbiani volavano al contrario, dal mare verso la terra, le onde si ritiravano al largo ignorando la riva. Il vento scompaginava le nuvole ammassandole sulla punta delle montagne, in silenzio.
Con gli occhi si cerca il mondo e si contano i solchi dove si depositano i giorni, è sempre pieno il simulacro dove riparano gli errori e le intenzioni tradite.
Le cime degli alberi immobili, gli aghi e le foglie ancorati ai rami come gatti ai cornicioni.
Le onde elettromagnetiche in acqua in pasto ai pesci. Era il giorno adatto.
Non avrebbe portato via nulla, c’era la valigia in alto, assieme alle coperte che aspettavano l’inverno, pronta.
Nessun sermone le avrebbe fatto cambiare idea, via, lontano da questa vita indolente. L’autobus, sì, quello che passava a mezzogiorno, c’era tempo.
Anche la valigia, dopo.
Si era allontanata dalla finestra. Era meglio.
Era entrato piano.
Agota spostati mi fai buio.
Devo pettinarmi, devo andare alla funzione, io.
Hai tempo non inizia che alle otto e non hai neppure tutti questi capelli.
Agota impugna la spazzola e solleva il braccio, con la coda dell’occhio lo osserva.
Lui segue il movimento si sofferma sulla punta ossuta del gomito che buca l’armonia della figura.
Questo apparecchio fotografico è uno strumento perfetto.
Anche una spazzola l’è.
Poggiata sulla toletta è perfettamente inutile.
D’intorno flaconi usati dalle etichette sbiadite, cleenex, uno sciroppo scuro. La testata del letto si riflette nello specchio e rimette ordine alla funzione della camera. Rigida, allineata.
Cosa vuoi fare? Non hai la mano abbastanza ferma.
Dici che tremo, la mia acconciatura ne soffrirà.
Poco importa al tuo Dio, non si accorgerà né della tinta malfatta né d’altro.
Lui è dietro la sua spalla destra, lei è mancina.
Il pranzo è nella busta di carta. Hai scordato i tuoi sandwich ieri, affibbia il polsino, io non posso aiutarti.
Agota aveva iniziato vuotando il fondo dei drink del marito (il primo) con il secondo era passata ai bicchieri interi.
Se non fosse stato per quell’impercettibile tremore e il fiato che sapeva di ciliege marce, nessuno avrebbe sospettato nulla. Gli ubriachi si fottono il fegato e impietosiscono gli altri.
Cosa è adesso questa smania per la fotografia, gli aveva detto sibilando.
Voglio che mi resti qualcosa di te, fissarti negli occhi senza che tu possa fuggirmi.
Aveva riso rovesciando indietro la testa, nel modo che l’aveva resa unica ai suoi occhi.
Potrai guardare le altre e nessuno dirà che sei un pervertito.
La valigia.
Che valigia?
Quella in alto, sai che mi prende il capogiro.
Lascia fare, lascia che ci pensi io.
Prende la spazzola e le ravvia con lentezza i capelli, aveva mentito, erano lucidi e ancora corposi.
Adesso la spazzola e la macchina fotografica sono accanto sulla toletta.
Mangia qualcosa.
Ti accompagno alla funzione.
No.
Così era stato un gesto naturale andarsene, silenziosa come una passeggiata sulla spiaggia, non aveva considerato che era l’ultima occasione per deporre le armi e tirarsi indietro.
Lo aveva sposato in un momento di noia, con lui sarebbe stato più facile di come era stato fino a quel momento. Due uccelli, soli, con i becchi lunghi e il piumaggio inquinato, ecco cosa erano diventati.
Abitavano fuori dal centro, quando lui le aveva proposto di continuare a vivere là anche dopo il matrimonio, non le era sembrata una cattiva idea. Visite settimanali in città, un cambiamento rispetto alla vita precedente. La tranquillità della zona le consentiva di riposare di giorno; le notti potevano diventare frenetiche senza preavviso, Oscar era un medico. Lei era un soldatino, sin da bambina le avevano inculcato il senso della disciplina alla quale aveva saputo sottrarsi raramente. Due o tre volte al mese accadeva di alzarsi nel cuore della notte, Oscar era già alla porta come se sapesse un momento prima che avrebbero bussato.
Insieme raccoglievano le intenzioni sconfitte, i panni arrossati dai segreti e le lacrime di sollievo che non si distinguevano da altre
Lei indossava il camice sulla veste e sistemava i capelli con brevi gesti che la riportavano presente a se stessa, schiaffeggiarsi avrebbe avuto lo stesso effetto. Insieme raccoglievano le intenzioni sconfitte, i panni arrossati dai segreti e le lacrime di sollievo che non si distinguevano da altre.
Sapeva tacere e stringere una mano.
Dalla finestra i giorni erano macchie verdi che tappezzavano un’esistenza monotona, le parole l’avevano abbandonata assieme a quel figlio che non sarebbe più arrivato. Oscar aveva bisogno di una moglie o semplicemente di un’infermiera fedele? Non poteva tradirlo, non riusciva ad amarlo, alla gratitudine si era sostituita la noia e un bicchiere di bourbon, anche due.
Sì, era quel liquido scuro a tenerli assieme, era cominciata con una questione di umori, erano traboccati malumori. Della sua vita precedente, lui non sapeva nulla, faceva parte del gioco, lei aveva conservato poco di ogni cosa. Una valigia, libri e nastri per i capelli, che non avrebbe usato.
Di giorno lui era ingoiato dall’ospedale e dalla routine. E adesso quella stupida macchina fotografica.
I bicchieri erano diventati troppi. Le bottiglie le accatastavano nel bidone metallico nel vialetto, quando c’era vento sbatteva come uno strumento non accordato, erano diventate troppe. Il vuoto sostituiva ogni cosa in quella casa, le mani di Agota avevano cominciato a tremare. Oscar era un predatore, pronto ad accorrere al suono del telefono e della porta.
Anche lui tremava.
Così un mattino dopo la funzione invece del camice aveva indossato il soprabito, quello leggero che era quasi primavera, i nastri colorati li aveva lasciati sul cuscino in un disegno geometrico, non le piaceva scrivere. La valigia trascinata fino alla fermata dell’autobus, era salita su quello di mezzogiorno in punto, nell’attesa una sigaretta dietro l’altra, per ritmare la noia.
Era scesa al paese successivo, cercato un’affittacamere, il primo che aveva incontrato, nessuna formalità, eccetto il pagamento anticipato, si era sdraiata sul letto.
Il lampadario di carta di riso, una luce giallognola intrappolava una mosca semicosciente, toccare l’interruttore era stato un movimento automatico. La donna, giù, non aveva fatto domande, una settimana anticipata, aveva posato i soldi sul bancone. Il soprabito lo aveva messo di traverso su una sedia di midollino che aveva visto tempi migliori, come lei. Adesso respirava profondamente, come se la strada l’avesse percorsa correndo, e le mancasse il fiato, un insetto fuori stagione.
Lui. Cosa avrebbe pensato non vedendola al ritorno? Non l’avrebbe cercata, aveva il suo lavoro, i suoi pazienti e il suo bicchiere vicino ai ferri. Sostituirla con un’altra donna, magari più vecchia.
Rimase tre settimane e tre telefonate. Scendeva dabbasso quando l’edificio dormiva, afferrava la cornetta e chiamava, lui rispondeva che pareva fosse già là. Lei non diceva nulla, contava fino a dieci e poi riattaccava. La terza volta lui parlò senza che lei avesse la forza di chiudere: dimmi dove sei, ti mando dei soldi o ti creperai di fame. E i tuoi capelli, non sciuparli.
Lei aveva contato fino a dieci, in un rito scaramantico che si era inventata senza un’apparente ragione, gli aveva riferito l’indirizzo con una voce che non aveva riconosciuto, poi era risalita a sistemare la poca roba e ad aspettare.
Non sopportava più la vista del sangue, all’inizio infilava ogni cosa in lavatrice, ma non era brava e allora prendeva i quadrati di stoffa li strizzava come a volerli rimpicciolire, tanto che le dolevano i polsi, poi riponeva il bucato in un armadietto zincato
Non sarebbe venuto, non c’era nulla di più importante del suo lavoro. Lei non era abbastanza importante, lavoro, bourbon e una donna che lo aiutasse. Lei non poteva più farlo.
Le mandò del denaro e una fotografia, lei non si riconobbe.
Lo tradì con l’unica cosa che avessero in comune, la solitudine.
Non sopportava più la vista del sangue, all’inizio infilava ogni cosa in lavatrice, ma non era brava e allora prendeva i quadrati di stoffa li strizzava come a volerli rimpicciolire, tanto che le dolevano i polsi, poi riponeva il bucato in un armadietto zincato. Si ritrovava a guardarlo sempre più spesso, quando lo sportello cominciò a non aderire più e a lasciare uno spazio dal quale si sarebbe potuto spiare dentro, capì che quella non era la soluzione.
Ogni volta che ne cacciava dentro un altro, l’odore metallico le risaliva fino alla radice del naso e doveva correre a lavare mani e faccia, strofinare in maniera maniacale, fino ad arrossarsi la pelle. Così ne comprava di nuovi e gettava via quelli usati. Lui fingeva di non accorgersene.
Eppure erano gli unici momenti in cui stavano insieme, facevano qualcosa per una donna indifesa, o abbandonata o semplicemente determinata. Da molte Oscar rifiutava il denaro.
Dica all’uomo che l’aspetta fuori che mi ha pagato, lo tenga, le servirà.
La sera in cui Agota aveva bussato alla sua porta, si era udito subito il rumore dell’auto che si allontanava nell’oscurità, invece di chiamarle un taxi, a cose fatte l’aveva accomodata nell’ambulatorio, l’aveva lasciata dormire, con quella corolla di capelli che le si era infradiciata di sudore e che poi avrebbe spazzolato per calmarla. Erano rimaste una valigia e lei, l’unica testimonianza di un passato, il resto era finito tra i rifiuti speciali.
Si erano abituati in silenzio, Oscar non aveva dovuto spiegarle nulla che lei già non sapesse. Si era chiesta come avesse fatto finora da solo. Lui adesso sembrava non potere fare a meno di lei.
Agota era diversa, non aveva pianto, dopo due notti di febbre e silenzio era rimasta, come se fosse la cosa ovvia, due settimane e si era ristabilita, nessuno era venuta a cercarla, lei non aveva cercato nessuno.
Si erano abituati in silenzio, Oscar non aveva dovuto spiegarle nulla che lei non sapesse già. Si era chiesta come avesse fatto finora da solo. Lui adesso sembrava non potere fare a meno di lei.
Non ci saranno altri figli, le aveva detto guardandola negli occhi, quando aveva stabilito che lei potesse sopportarlo..
Non importa, aveva risposto, ravviandosi una ciocca bionda.
Quando lui la strinse la sentì irrigidirsi e pensò che fosse normale e la lasciò andare.
Lei salì di sopra mise la sedia vicino l’armadio, non si tolse neppure le scarpe, prese la valigia e assieme ai panni rossi nell’armadietto zincato finirono anche gli abitini da neonato. Tenne i nastri.
Uno via l’altro, non riusciva ad odiarle, stringeva loro le mani con forza.
Dio non le bastava, non le bastavano l’alcool e una vita asettica. Un ventre perennemente vuoto, pulito.
Ordine soldatino Agota, la valigia perfetta, un po’ più vuota, si era sciacquata il viso, le mani, le braccia, si era imposta di uscire da quella stanza anonima, impersonale, dove anche le mosche stentavano a morire. Osservare il ritaglio di mondo dalla finestra non era sufficiente, e quello spirito di sopita ribellione le si agitava dentro, impossibile da ignorare.
Mi comprerò un vestito, ecco cosa farò con questo denaro, un abito nuovo. Un abito a ruota, a quadretti gialli e bianchi, di quelli che sembrano una tovaglia da tavola per un picnic estivo. Chissà cosa avrebbe pensato la commessa del negozio vedendo la sua foto dentro il camerino e la valigia in un angolo, magari chiameranno la sicurezza, gli artificieri, pensa che divertimento quando troveranno soltanto qualche banconota e delle scarpette da neonato.
Lungo il fiume, vicino il ponte, lungo fiume lungo morire, no veloce morire. Il vestito è pesante, è nuovo, è bello.
La pensione è pagata. La mosca ha smesso di ronzare. Sì, la luce, l’ho spenta.