Le cose che odio dell’internét (banalità 2.0)
Ero ancora un poppante che già detestavo le persone che si esprimono copiando espressioni, parole e atteggiamenti di altre. Odiavo coloro che catturavano il consenso riciclando tormentoni televisivi, quelli che ripetevano a pappardella le cadenze altrui. Non ho mai sopportato la banalità, il pensiero standardizzato e comune. Ricordo un personaggio delle scuole medie con cui mi prendevo facilmente a cazzotti. Aveva una innata capacità di captare frasi di circostanza e modi di dire sul nascere e se ne faceva orgoglioso portatore. Era anche un discreto leccaculo, sempre dalla parte del più forte. Penso abbia fatto strada. Me lo immagino dietro alla scrivania mentre delizia i colleghi con una scoppiettante gag fatta di bravoh e sapevatelo. Mi piacerebbe molto incontrarlo e rifilargli un bel cazzotto all’altezza del piloro. Come ai vecchi tempi.
Che poi alla base di detti e motti proverbiali di uso comune ci sono proprio questo tipo di dinamiche. Qualcuno se ne usciva con una frase originale, questa aveva successo, veniva rielaborata e passava al linguaggio comune. Pure gli accenti e le cosiddette parlate locali si sono create seguendo questo iter. Niente di nuovo, quindi. Se non che questi processi erano lenti e localizzati. Era il tempo a stabilire cosa andasse conservato e cosa meritava l’oblio.
Oggi no. Oggi ogni tre per due arriva il Pietro Bembo di turno a coniugare il nuovo trend e per tre mesi non
Condividiamo cose inutili, dozzinali, facciamo foto brutte e ne siamo consapevoli, altrimenti non affideremmo il loro successo sulla rete a quell’algoritmo che risponde al simbolo #
X is the new Y. #sapevatelo. Quanto sei X da uno a Y. E poi i concetti espressi tramite hashtag e peggio ancora le stronzate nemmeno molto concettuali #scrittecosìallacazzodicanechenonsocosacisiaspetti possa capire un cristiano da una tale accozzaglia di consonanti e vocali. Non le reggo più. Davvero. E poi questo bravoh che leggevo qua e là e non capivo da dove venisse e manco me lo sono chiesto perché mi faceva cagare e comunque non l’avrei usato per niente al mondo. E però molti lo ficcavano ovunque e magari sono gli stessi che ora stanno a indignarsi per il suicidio della donna che quel bravoh pronunciò per prima. Senza pensare sarebbe divenuto suo malgrado virale. Chi l’ha usato è anch’esso complice. L’ignoranza nel 2016 in un paese pseudo sviluppato come l’Italia è una colpa.
Internet è appena nato. Le potenzialità sono enormi. Ma pure i lati oscuri. Condividiamo cose brutte, dozzinali, pensando siano belle perché abbiamo perso il concetto di bello e nessuno ce lo insegna più. Facciamo foto brutte e tutto sommato ne siamo consapevoli, altrimenti non affideremmo il loro successo sulla rete a quell’algoritmo che risponde al simbolo #. Siamo investiti da milioni di notizie e non abbiamo la capacità di discernere il vero dal falso. Così finiamo per credere in quello a cui ci hanno abituati: l’entertainment. Più luccica e più fa condivisioni. Più fa condivisioni e più è probabile sia vero. Il consenso 2.0 passa dalle visualizzazioni.
Però non chiedete a me come se ne esca da questa assuefazione al brutto. Vorrei consigliarvi di usare parole vostre, ma so che molti di voi sarebbero preda di attacchi di panico. Oppure di controllare le fonti di notizie e pure di parole divenute tormentoni, ma buonanotte, come mi fossi espresso in arabo. E poi non sono certo un esempio di successo, quindi continuate pure a standardizzarvi che è meglio per voi. A proposito, pure alle medie alla fine non l’avevo mica vinta io. O meglio, nell’uno contro uno lo stendevo. Ma in suo supporto c’era una schiera di stronzi da far paura, gente che si vestiva tutta allo stesso modo e parlava alla stessa maniera e diceva che era figa una compagna solamente dopo aver avuto il consenso di un paio di persone. Dalla mia parte nessuno. Quindi andava come andava.
Il potere della banalità. Che oggigiorno è 2.0. Quindi vale doppio.