L’attesa
L’attesa non è essa stessa sempre piacere. No. Quando è attesa della dolce attesa, poi, ancor meno.
A volte, è solo angoscia, frustrazione, sensazione di impotenza. Specialmente se da quell’attesa dipende la compiutezza di una storia d’amore e dell’esistenza stessa dei due individui che la vivono. Che continueranno a ritenere il proprio rapporto incompleto fino a quando non arriverà quello che desiderano.
Ci sono figli che arrivano per caso. Per un “incidente“. Perché il preservativo è messo male o si sfila prima del tempo. Oppure per calcoli sbagliati. O semplicemente perché così era destino che fosse.
E poi ci sono figli che si fanno desiderare a lungo. O che non arrivano mai, pur essendo fortemente voluti. E ci sono lutti che sono un fatto davvero solo privato: il mondo esterno non li riconosce come tali, li derubrica, li sottovaluta. Perché chi non passa attraverso certi dolori o certe esperienze non può capire.
La parola chiave quando si tratta di questi temi dovrebbe essere solo una: delicatezza. Magari associata a sensibilità. Che si tratti di una campagna pubblicitaria, di iniziative ministeriali, di discorsi tra amici, la superficialità non è ammessa. Neppure a fin di (presunto) bene.
L’attesa ha molte facce. Ve ne racconto qualcuna. I nomi sono di fantasia, le storie tutte vere.
La parola chiave quando si tratta di questi temi dovrebbe essere solo una: delicatezza
L’attesa di Beppe e Cinzia, alla fine di ogni mese. Una attesa al contrario, ossia l’attesa che ci sia qualcosa da attendere, un ritardo invece del solito ciclo che arriva puntuale e inesorabile. Quelle macchie di sangue, le lacrime di Cinzia. Lui che non vuol star lì a chiedere ogni tre minuti e poi basta uno sguardo o un tono di voce al telefono e capisce subito: anche questo mese… niente.
Qualche volta, c’è un lieve ritardo e allora Beppe e Cinzia decidono di fare il test. Lì l’attesa è molto più breve, ma interminabile… Quei secondi prima che la spia che indica l’esito si colori o meno… nella loro mente passa di tutto. Si abbracciano, si stringono, stanno in silenzio, si guardano. E alla fine, se è negativo, lei piange. Lui cerca di consolarla, ma vorrebbe piangere anche lui. Nessuno dei due lo dice a voce ma se lo dicono con gli occhi: non saremo mai genitori. A noi non è concessa questa gioia.
Eppure, Beppe e Cinzia non si arrendono, non si rassegnano alle prima difficoltà. Seguono i consigli degli esperti, così, per esempio, hanno imparato a farlo non (solo) per desiderio, per voglia, per piacere, ma seguendo il calendario dettato dal ginecologo di Cinzia. Due o tre giorni sono quelli potenzialmente idonei al concepimento in un mese, e allora bisogna darsi da fare. Non importa se c’è stata una giornata faticosa al lavoro, non importa se ti sei svegliato male, non importa se quel giorno ti senti spento o spenta: si deve fare. E si fa. All’inizio, pensano che ci sia molta poesia nel fare l’amore con una finalità tanto nobile: concepire una nuova vita. Ma dopo un po’, Beppe comincia a sentirsi oppresso. Ha sempre amato e desiderato intensamente la sua donna, ma la sensazione di timbrare il cartellino su ordine di altri non esalta il desiderio. Lentamente, inconsapevolmente, nel cercare di essere genitori, stanno mettendo a serio rischio la loro integrità come coppia. Stanno perdendo naturalezza nell’aspetto più intimo, ancestrale e spontaneo del loro amore.
L’attesa di Anna e Piero. Hanno fatto una lunga terapia. Lei aveva qualche problema ovarico, ma erano soprattutto gli spermatozoi di lui ad essere critici: troppo lenti. Chi ha detto che i problemi di fertilità dipendano quasi sempre dalle donne? Non è affatto vero, spesso il problema è nell’uomo. Oltre un anno di terapia. Ora lui deve consegnare un campione di liquido seminale perché venga esaminato. Deve essere “fresco”, non oltre un’ora dopo l’eiaculazione. Così, deve produrlo direttamente nello studio medico. Costretto a masturbarsi in bagno, senza eccitazione, senza stimoli. Pensa alle cose più trasgressive, alle donne più desiderate, agli idoli erotici. Lo assale persino una risata isterica. Niente, nessuna reazione, nessuna erezione. Ma deve. Deve eiaculare e deporre il seme nella provetta che gli è stata consegnata dalla segretaria.
L’attesa di Simona e Renato. E’ stata lunghissima, prima, seguendo la strada più comune. Quella naturale, in tutti i sensi. Troppo lunga. E vana. Allora hanno deciso che avrebbero donato tutto il loro amore in un modo diverso. A un bambino che non può riceverne da chi lo ha procreato, ma lo avrebbe avuto da loro. Non è certo una scelta facile. Se pensiamo che già non lo è assumersi la responsabilità di allevare un bambino quando promana da te, figuriamoci quando, da un punto di vista biologico, è un perfetto estraneo. Spesso proveniente da terre lontane e con colori della pelle diversi. Renato se lo è chiesto a lungo: riuscirò ad amarlo come se fosse veramente mio? E Simona invece si tormentava di dubbi sulla sua capacità di essere davvero all’altezza. Come una vera madre.
Hanno deciso. E quindi è partita la burocrazia. Le trafile. La produzione di documenti. Le ambasciate. L’attesa per tutto: per gli incontri, i colloqui, gli psicologi, per comporre il profilo dei due aspiranti genitori, individualmente e come coppia. Sono pronti, sono motivati, sanno davvero cosa significa accogliere un bambino che non sarà come figlio loro: sarà proprio e a tutti gli effetti figlio loro. Che famiglia saranno, che genitori saranno? Attesa sfibrante. Settimane, mesi, anni.
L’attesa di Cesare e Stefania. La domenica a pranzo, a casa dalla famiglia di lui. I saluti, i convenevoli, due risate, una tartina, gli antipasti, commenti sull’ultimo acquisto della Roma, chiacchiere su tasse, cibo e poi qualcuno che prima o poi, inesorabile, la domanda la butta lì: allora, a quando l’erede?
Cesare e Stefania sono sposati da tre anni, all’inizio volevano godersi la vita. E fare esperienze. E viaggiare. E pensare al lavoro. Ma sembra che il mondo intorno, e la famiglia di lui in particolare, tradizionale, all’antica, non si aspetti altro da loro: che sposi sono, che famiglia sono, che stanno a fare insieme alla loro età se non fanno figli?
E loro adesso in effetti li vorrebbero. Ma non arrivano. Stefania ha avuto un aborto spontaneo. Al quinto mese. La gravidanza finalmente era arrivata. Tutto sembrava procedere bene: l’emozione indescrivibile di vederlo, seppure solo attraverso l’ecografo. Gli occhi umidi di gioia nel sentire i battiti del suo cuoricino, già dopo poche settimane. E invece un giorno, al controllo mensile, mentre nulla lasciava presagire che ci fosse qualcosa che non andava, Stefania coglie uno sguardo strano del medico appena comincia l’ecografia.
L’aria si ferma, l’attesa, sempre lei, è infinita nello scorrere di quegli attimi. Lui non dice nulla, pressa sulla pancia, aumenta lo zoom a video, le da’ colpetti in vari punti. Niente. L’attesa continua, l’angoscia cresce e ormai è pronta a diventare disperazione. Non si muove niente. Lei e Massimo si guardano, non capiscono, non vogliono capire.
Mi dispiace. Lo abbiamo perso. Non ci sono più battiti.
Com’è possibile? Andava tutto così bene. Perché? Deve esserci un motivo. “Signora, vedremo, faremo gli esami che sarà possibile fare, ma non è detto, anzi, non è manco probabile, che capiremo la ragione. Succede, è la natura. O la volontà di Dio, se lei crede. Mi dispiace, davvero”.
Dispiace al medico, a loro di più. Vorrebbero non dirlo a nessuno. “Vedrai che tra poco avrete altre gravidanze, andranno bene e non ci penserai più“. Tutto liquidato in una bella frase fatta, cali pure il sipario.
cinque mesi bastano per amare immensamente qualcuno che si sente, anche se non si vede ancora
E invece Stefania avrebbe urlato. Che cazzo ne sa chi non ci è passato di cosa sia un aborto al quinto mese? Che ne sa di cosa sia essere stimolata e poi “revisionata”, che sopporti dolori che normalmente poi ti ripagano con tuo figlio vivo, il primo pianto, il primo latte al seno, e invece così no: sopporti un dolore che prima che il corpo ti strappa l’anima. E alla fine non hai niente; quello che avrebbe dovuto essere tuo figlio, pochi mesi dopo, è solo un insieme di cellule senza vita, non strilla, non si muove, non te lo fanno neanche vedere. Qualcosa, non qualcuno. Ma per te era qualcuno, e cinque mesi bastano per amare immensamente qualcuno che si sente, anche se non si vede ancora.
Avrebbe urlato Stefania. Oppure pianto in silenzio. Invece è rimasta zitta, cercando il nulla da guardare, e che nessuno guardasse lei.
Forse un giorno Stefania avrà altri figli, sì. Ma questo, qui e ora, avrebbe avuto diritto di vedere la luce, anche lui. Di avere un nome, di vivere. E non di restare una pagina non scritta, una storia non raccontata.
Forse un giorno Stefania giocherà coi suoi bambini, insieme a Cesare, o passeggeranno al parco. Ma ogni tanto si fermerà, guarderà il cielo e si chiederà dove sia ora il suo bambino mai nato. E se esiste il Paradiso dei bimbi mai nati…
(foto di Erika Sichera o tratte dal web)