Americani
Quando gli americani arrivarono a Borgomarino il paese era pressoché deserto.
Già da un pezzo quasi tutti gli abitanti erano andati via, chi nei paesi dell’entroterra, chi nelle campagne circostanti, restavano solo quelli che non avevano altro punto di riferimento che i propri catoi e che, al suono della sirena d’allarme, si affollavano per raggiungere l’unico rifugio del paese.
Alcuni dei soldati americani si accasermarono nel vecchio Quartiere Militare, in parte sventrato dalle bombe ma ancora in grado di poter ospitarne una modesta parte, altri si insediarono negli appartamenti requisiti e collocarono gli uffici in una delle sale del Comune.
Il primo e più pressante pensiero del federale fu di dare fuoco alla sua divisa perché non sopravvivesse nessun segno del suo passato di fascista. Troppe male cose si andavano mormorando circa il destino di chi aveva servito il regime, meglio non rischiare.
Borgomarino era sempre stato un paese tranquillo, anche evoluto, per il suo essere, come suggeriva il suo stesso nome, un posto di mare dove attraccavano navi mercantili e piroscafi da diporto, ma proprio per il suo porto era considerato un obiettivo sensibile ed era stato bombardato più di una volta.
Perciò gli Alleati erano attesi da tutti come i salvifici angeli che li avrebbero liberati dall’Inferno e già il mattino dopo il loro arrivo la voce si era sparsa per tutte le strade.
I ragazzini giravano per il paese gridando: “ ‘I miricani, ‘i miricani, arrivaru ‘i miricani” e si affollavano attorno alle loro jeep aspettando caramelle e cioccolata, come succedeva in ogni altra parte della martoriata Italia.
Le famiglie sfollate rientrarono alla spicciolata per tornare ad insediarsi nelle proprie abitazioni, che non sempre trovarono come avevano lasciato: alcune delle case che gli americani avevano occupato avevano subito malversazioni, dove danni, dove piccoli furti, dove disordine e abusi.
Tuttavia tutti erano più che contenti perché infine erano stati i “liberatori” e presto sarebbero andati via anche loro e tutto sarebbe tornato come prima.
Una mattina per l’aria del paese si sprigionò un canto. Qualcuno cantava una canzone che parlava della mamma. Una voce robusta, baritonale, che pronunciava le parole in un italiano approssimativo.
Poco per volta, seguendo la direzione di quel canto, una piccola folla arrivò nella piazza della Chiesa Madre, sui gradini della quale stava seduto un soldato nero.
Cantava col pianto nella voce quella canzone rivolta alla madre lontana, che forse non aveva da tempo sue notizie, che forse lo credeva morto in un posto lontano e irraggiungibile dal quale non sarebbero arrivate neanche le sue spoglie. Cantava e quelli che lo guardavano si accorgevano che sulle sue guance scure scivolavano le lacrime, le stesse lacrime che ciascuno sentiva pungergli gli occhi.
Lui era uno come tanti di loro, un uomo solo, in un paese straniero dal quale non sapeva se sarebbe mai tornato indietro, piangeva come loro e cantava per la madre come avrebbero cantato loro e come forse altri al fronte avevano cantato con la paura nel cuore. Forse nessuno si era soffermato a pensare che il cancro della guerra aveva roso tutti, che altri uomini, alleati o nemici, avevano patito fame e paura e avevano sofferto di quella maledetta tabe.
Questo lo raccontava mio padre.
Lo raccontò più di una volta ed ogni volta nei suoi vecchi occhi che avevano vissuto guerra, fame, paura e la terribile malattia di una figlia, si formava come un velo e la sua voce tremava di emozione.
Forse né lui né noi figli allora fummo consapevoli della grande lezione di umana fratellanza che ci stava tramandando.