La foto che non ho
Poiché le mie estati finiscono quando inizia il periodo delle nascite in famiglia, dedico l’ultima uscita di quest’anno per Alghero e lo Straniero a un racconto che riflette sul dove e come abbiano vero inizio i destini. A voi, auguro un’estate ancora lunga almeno nel cuore. A risentirci con la ripresa di Ziggy non resta mai solo tra due settimane.
La foto che non ha è quella che ora tiene tra le dita. Lei è stata davvero in quel paesaggio, conosce quel posto e lo ha fotografato. Ma mentre guarda lo scatto capisce il momento come un fuori tempo più ampio di ciò che è una fotografia; per quanto scattarla sia già arrestare un evento ad un istante, privarlo di un prima e di un dopo. In quell’immagine qualcosa è andato oltre.
Deve aver camminato molto quel giorno per arrivare così vicino al cielo. La foto restituisce la sensazione esatta che le dava il luogo; panorami metafisici, il nitore di un quadro di Magritte o una tavola del naturalismo inglese, dettagliata.
mentre guarda lo scatto capisce il momento come un fuori tempo più ampio di ciò che è una fotografia; per quanto scattarla sia già arrestare un evento ad un istante, privarlo di un prima e di un dopo
La foto lei l’ha scattata col telefono in una giornata di fine inverno: gli alberi sono ancora nudi, imponenti ed eretti come colonne di un tempio costruito dalla natura. L’ha riguardata sullo screen e ha provato stupore. L’ha chiamata La foto che non ho e salvata in una cartella telematica dove tiene alcune immagini importanti – è sicura, prima o poi le saranno utili. Un giorno l’ha caricata insieme ad altre su una chiavetta per stampare su carta. Adesso la tiene tra le dita, un’immagine scarna divisa in campi chiari e scuri, il fiume di lato come un frammento di specchio che crea riflessi.
Lei ama dare il titolo agli scatti. A volte li titola subito riguardandoli, più spesso quando va per archiviarli. Il nome la aiuta a fissare in modo preciso la sensazione che ogni immagine porta con sé. In quel posto è la pace. Lo guarda e sente un’onda pacifica impossessarsi del suo sentimento. La foto lei la ha, la possiede, l’ha ritrovata. Perché le ha dato quel nome? Ci deve essere pur stato un motivo, ma ora le sfugge. La scruta come per trovarvi qualcosa, qualcosa che non ha. È la pace a fare la differenza: una realtà che non conosce angosce e paure, diverse dimensioni che si toccano senza dare attrito. Aura di facilità, certezza che si può stare così, tra cielo e terra. È un luogo che fa pensare all’inizio di qualcosa che procede armonioso, una vita serena forse. Non come la sua, sempre percorsa da situazioni tragiche sin dal passato più remoto.
Dove ha avuto inizio la sua vita? Quando è stata concepita. No, prima. Forse con il matrimonio dei suoi genitori. Tutto ha avuto inizio con le bombe che cadevano sulla cappella del convento in quel fine inverno del ’44. La mamma sottile in un tailleur, il padre con la divisa di ufficiale medico. Mentre celebrano le nozze si annuncia un coprifuoco, devono accelerare la cerimonia e fuggire. La mamma viene ricondotta ai rifugi, quelle semplici case dove è stata accolta con i suoi familiari. Suo padre deve rientrare all’ospedale, hanno bombardato lungo la costa e ci sono stati molti feriti, hanno bisogno di lui in sala operatoria. Vede la scena davanti agli occhi così come sua madre tante volte gliel’ha narrata: non esiste una foto del matrimonio dei suoi genitori. Quella è la vera foto che lei non ha.
Dove ha avuto inizio la sua vita? Quando è stata concepita. No, prima. Forse con il matrimonio dei suoi genitori. Tutto ha avuto inizio con le bombe che cadevano sulla cappella del convento in quel fine inverno del ’44
“Guardami fratello…”: quella frase lei l’ha sentita urlare in molte notti di bambina. Gli incubi di suo padre resistevano ai decenni passati dalla fine della guerra, all’elettroshock subito negli anni ‘60. La malattia che gli ha tolto l’equilibrio e gli fatto lasciare il lavoro di medico si chiama guerra, ma nessuno mai la definisce così. Le danno altri nomi, più moderni. Si è sposato sotto le bombe, lo stesso giorno gli è morto il fratello. “Sapete quanti morti ho visto, sapete quanto dolore?”, lo ripete sempre quando a casa chiedono tregua di quella cupezza, della rabbia che si rivolge sulla mamma così esile, così indulgente con lui. Una volta lei ha preso il coraggio: “Babbo, ma noi siamo vivi! Vivi.”
È rimasto senza forza, a piangere chino sul tavolo di cucina. Era andato in America a studiare le nuove medicine ed era tornato con un lavoro nell’industria, guadagnava bene. Ma era geloso del tempo che la mamma aveva trascorso da sola, sospettoso di un collega di lei. La seguiva. Si arrabbiava così tanto, anche con lei bambina, pure una bambina fin troppo saggia. Le chiamavano crisi di nervi ma era la guerra. Lei lo aveva scritto in un componimento: La mia famiglia non ce la fa ad essere felice perché mio padre si è ammalato di guerra: non è guarito più, neanche con le medicine dell’America. Se solo loro avessero conosciuto mai la pace, quel sentimento che inonda la sua foto, la foto che ora tiene tra le dita. È sicura, tutto il loro destino sarebbe stato diverso: un’altra vita – quella che ha desiderato sempre – senza incubi, senza rabbie.
Osserva di nuovo l’uomo giovane in giacca nella foto. Sì certo, potrebbe essere suo padre all’età in cui si è sposato. Aveva meno di trent’anni, era bruno ed esile, con la figura elegante. La foto che non ha potrebbe essere quella; e quello suo padre il giorno del matrimonio. In un posto lungo il fiume, in un quadro di Magritte, in un luogo liberato da qualsiasi prima e dopo. Un attimo e una vita, lì tutto può ricominciare.
Il ragazzo che si guarda le scarpe ora è suo padre. Con le calzature eleganti si solleverà in alto tra le nuvole. Non c’è nessuna guerra, solo quel sentimento largo e sontuoso che è la pace. È pronto per incontrare la mamma dove conduce la fuga centrale dell’immagine, dove va a piegare il fiume e cielo e terra si toccano. In quel luogo lo attende la sua sposa esile con il tailleur bianco. Non può ancora vederla perché deve fare il salto e arrivare dentro il blu intenso, tra nubi merlate. Là dove il tempo ha rinunciato alle proprie architetture e la natura ha eretto un tempio che si regge su colonne di alberi nudi. Il nitore e la tranquillità sono testimoni silenziosi del rito. Tutto ha inizio, tutto è nuovo. La foto che tiene tra le dita è divenuta la foto che non aveva, quella del matrimonio dei suoi genitori. Adesso la possiede. Se la sua vita ha stretto un patto con il destino proprio allora, ora tutto potrebbe essere diverso. Adesso che è stata in quel luogo, che ne conserva il ricordo in un’immagine. Ora che l’onda bianca della pace ha portato via la guerra e il suo male. È bastato fermare il tempo: uscirne fuori solo un po’ sembra possibile.
Guarda la foto che non ha, e sorride.