Il tepore di una voce
In quel tempo… non c’era tepore al mattino. Ricordo la pigra inerte adolescenza, noiosa e pesante come il lungo cappotto di tweed, la sciarpa e il cappello di lana che mia madre imponeva prima di uscire.
La città dove studiavo era fredda molto più allora di oggi. Mille metri sul livello del mare, nel cuore della Sicilia montuosa e dimenticata. Ombelico pietroso dei monti Erei.
Enna era, in quel tempo, tutta accovacciata su un cocuzzolo di roccia piatta.
Oggi la cittadina è divisa in due parti: Enna alta ed Enna Bassa. Le numerose frane sgretolano l’altipiano che i popoli antichi considerarono roccaforte inespugnabile.
Nel mio ricordo, strappato alle pagine di un vecchio diario, esiste solo Enna Alta. I ripidi strapiombi sulle vallate e le anguste scalinate nel dedalo di vicoli stretti. La città dalle magnifiche vedute dilata lo sguardo fino a sfiorare il Mar Ionio.
Dalle torri medievali, il profilo maestoso dell’Etna si lascia ammirare in tutto il suo splendore.
Una fitta nebbia nasconde spesso le vie ghiacciate e scivolose e la tramontana toglie ogni espressione ai volti congelati.
Il mio paese, Villarosa, è rannicchiato più in basso, nella valle del Salso e del Morello.
Ogni mattina percorrevo in pullman una strada tortuosa in salita. Poi andavo a piedi fino alla scuola, con i libri sotto il braccio legati da un elastico, come si usava allora.
Oltre ai pochi compagni e compagne, mi accoglievano gli spessi muraglioni di quello che era stato un castello, poi un carcere. D’inverno, l’atrio interno ospitava uno spesso strato di neve. I bidelli dovevano spalare per consentire il passaggio degli studenti verso la tetra e buia scalinata che ci portava in classe.
Anche le scelte, in fatto di amicizia, erano un po’ limitate. Pochi studenti. Un nido di aquile, così lo chiamavo.
Il freddo di Enna si mescola al ricordo di un’immagine soave come musica, e addolcisce il ricordo di quegli anni lontani.
Al suono della campanella, Rosetta faceva il suo ingresso sulla porta. Rimaneva immobile per qualche istante, passando in rassegna, con lo sguardo, tutti i suoi studenti, senza mai trascurarne nessuno. Era il suo modo di fare l’appello. Un radioso sorriso sgorgava dalle sue labbra e illuminava i caldi occhi neri e tutta l’imponente figura.
Buona vita ragazzi! diceva, e raggiunta la cattedra, apriva un vecchio volume ingiallito e iniziava la lezione di greco.
Era quello il momento in cui mi sentivo inondata da un calore delicato e avvolgente. Rimanevo a guardarla.
Un lieve tepore emanava dalla sua voce e si riversava sull’aula come una placida onda.
Antiche parole d’amore danzavano come tenui fiammelle sospese nel tempo. I versi di Saffo, Alceo, Anacreonte, infondevano dolcezza e armonia. Il canto soave intiepidiva il mio cuore e il mio corpo. Mi lasciavo trasportare nel profondo dell’anima e travolgere dal suono di delicate melodie.
ἐν δ᾿ ὔδωρ ψῦχρ˻ο˼ν κελάδει δι᾿ ὔσδων
μαλίνων, βρόδοισι δὲ παῖς ὀ χῶρος
ἐσκίαστ᾿, αἰθυσσομένων δὲ φύλλων
κῶμα κὰτ ἶρον·
Qui fresca l’acqua mormora
tra i rami dei meli
il luogo è all’ombra di roseti
dallo stormire delle foglie
nasce profonda quiete.
Saffo – Traduz. Salvatore Quasimodo
Tutte le volte che ho freddo, anche se fuori fa caldo, cerco ristoro nello stormire delle foglie, nelle candide nuvole del cielo o in un granello di sabbia sulla riva del mare. Ma quando il vuoto e la noia offuscano i miei occhi e il vento freddo sale dal cuore e scompiglia i pensieri, cerco il tepore del magico suono di antiche parole, tra le pagine consunte di vecchi libri di scuola.