Odio l’estate
Le scarpe per ultime, per primo liberai il polso da un bracciale, che nella mia vita precedente, semmai una non bastasse, dovevo essere stata schiava, odio l’estate. La sabbia sotto i piedi, più umida verso la riva, sapevo che mi avrebbe infastidito, come tutte quelle cose che non vuoi, e che cerchi di scrollarti di dosso, qualcosa rimane e nei posti più impensati.
Così erano rimasti gli ultimi riverberi di un’estate a finire, strisce rosate su un contenitore vuoto d’aspettative, un vuoto che non si poteva rendere in cambio di una moneta.
Lui, il Signor XXX (e mi chiedo ancora oggi perché io lo chiamassi signor XXX), rideva e beveva, appoggiato alla ringhiera di legno schiarito dal sole di ogni estate, sbiadito dalle spalle di tutti coloro che avevano atteso che qualcosa iniziasse e non finisse mai. Invece finiva e bisognava anche fare festa, fingere un’allegria che sarebbe riposta negli armadi assieme ai costumi e alle infradito. Il solito gruppo, gli stessi discorsi, la stessa inadeguatezza, la mia.
Perché il signor XXX si strusciava a me all’ombra, e al sole lasciava scolorare quella cosa che non si poteva chiamare amore. Eccola; era arrivata. Faceva sembrare tutto così banale, come se nulla fosse cambiato, come se non fossi io la donna sdraiata sul tappeto anni ‘70 dei genitori di lui, quella che lui toccava, alla quale parlava all’orecchio quando la casa era deserta e i vicini erano a farsi le vacanze all’estero. Lui staccava il telefono, attaccava un’altra figurina all’album. E sorrideva inarcando verso l’alto l’angolo destro della bocca, uno soltanto. E io non potevo fare a meno di guardarlo, non potevo fare a meno di lui.
Lei era ricca, come tutti d’altronde che se anche divenivano spiantati, erano sempre ricchi, uno status (come il pedigree), che non perdi mai. Io non sarei mai stata come loro. E che cazzo ci facevo là? Lei non mi guardava neppure, ma avvertivo il risentimento e il compatimento. Gli aveva tolto il bicchiere di mano, sin da qui avevo sentito il ghiaccio sbattere contro i bordi, lo aveva portato alle labbra.
Bevi sempre il solito, aveva detto secca.
Poi glielo aveva restituito.
Ne prendo uno anch’io. Quando ti abitui ai sapori forti nient’altro ti disseta. Stronza.
Qualcuno già gridava: andiamo a fare il bagno, e già correva verso l’acqua sporcata dal grigio della luna. Sì, risposero altre voci alterate dall’alcool e dall’euforia degli ultimi scampoli d’estate.
Il vestito me lo sfilai dalla testa, le mutandine giù sulla sabbia, non avevo altro, la luce delle lanterne mi si appiccicò sulla pelle insieme agli sguardi dei meno ubriachi. Lei avvampò, lui smise di bere, di ridere. Semplicemente smise. Smise di fare qualsiasi cosa. Si prese il mio sguardo lo assorbì e me lo restituì sulla schiena.
Il tempo si era sospeso, sembrava che fosse quello l’istante esatto in cui l’estate era finita.
Era finita sul serio, l’acqua avrebbe lavato via ogni residuo, la tentazione di cambiare pelle, il sale avrebbe messo fine alla mia sete e da quel bicchiere, io non avrei più bevuto.
Anche gli altri cominciarono a spogliarsi, sentivo i corpi entrare fragorosamente in acqua, le risate, le grida vacillanti. Di una cosa ero certa: nuda ero la più bella.