Neuroni impazziti
Il racconto Neuroni impazziti di Pasquale Vitagliano ha ricevuto una speciale menzione alla seconda edizione del Premio Natale Patti.
Erano diretti ai laghi, Piero e la sua famiglia, dopo una settimana di lavoro. Non uscivano spesso nei week end ma almeno una volta al mese un’uscita ai laghi era d’obbligo. Paolo è un tipo normale e insegna musica in una scuola media di Milano. No, non è proprio un tipo normale. E’ un musicista, suona e insegna pianoforte. Certo, in passato aveva sognato di girare il mondo facendo concerti. Oggi di concerti, per la verità, ne tiene, ma non per il mondo. Insomma, per vivere fa il professore. E questo lo rende normale. Ma resta sempre un pianista, uno che da inerti tasti e da uno strumento di legno, che già come arredo basterebbe a se stesso, riesce a far uscire fuori dei suoni, delle melodie. La musica. Piero è un musicista e tutti i musicisti sono a loro modo dei maghi.
Sua moglie Clara, invece, fa un lavoro creativo, disegna fumetti. Ma non le piace la musica. E soprattutto non le piace la musica che Piero suona nei suoi sporadici concerti in provincia.
Quando Piero e Clara si sono conosciuti ed amati pensavano che tutto fosse possibile. Anche che fosse naturale per Clara, la ragazza, la moglie di Piero, non provare piacere, gioia, nell’ascoltare la musica che lui suonava. Lo seguiva sì, non lo perdeva mai di vista. Clara dedicava a lui ogni premura e attenzione. Era evidente che si amassero molto. Solo che Clara non ascoltava la sua musica. “Stanne certo, io sarò a fianco a te”, gli diceva sempre prima del concerto.
Poi, il tempo era passato. Erano nati Davide e Simona, per i quali entrambi davano tutto se stessi. Piero continuava a suonare in provincia. E Clara non era riuscita col tempo a gradire il genere di musica che lui suonava. Nemmeno ad assorbirla in tutti quegli anni. Nemmeno a sentirla bene o male familiare. Solo che questo ormai non era più così normale. Piero, almeno, non lo percepiva più tanto normale. Improvvisamente e senza motivo quel piccolo dispiacere quotidiano, quella distonia un tempo insignificante stava sfilando via dai luoghi del possibile nella pur piccola vita di Piero.
Erano quasi arrivati. Sui laghi avevano acquistato una villetta. L’auto seguiva morbidamente le serpentine che, superati i monti, permettevano di raggiungere il livello dell’acqua. Erano tutti sereni. Piero pensava liberamente. Clara pensava a loro due, ma senza preoccupazioni. I loro due bambini si erano addormentati. Ascoltavano solo la radio. Così nessuno aveva la responsabilità di scegliere la musica.
Chissà come fu, alle 10 di mattina, chissà quale radio, dopo una canzone, mandò un pezzo di musica classica, Chopin, la Polacca. L’ascoltarono tutta e nessuno dei fece domande o sollevò obiezioni. Piero ascoltò la Polacca di Chopin e pianse. Era accaduto di colpo, sotto gli occhiali da sole. Un’onda di commozione gli era salita da dentro. Immotivatamente, se non fosse stato per la suggestione di quella musica, Piero non aveva potuto trattenere le lacrime. Pianse in silenzio. Sforzandosi di far morire le lacrime negli occhi, protetti dalla montatura degli occhiali. Cosa dire a Clara? Un po’ si era anche vergognato. Non gli era mai capitato prima. Tutto durò neanche un minuto. Dopo di che le sue emozioni interne si stabilizzarono nuovamente. Anzi, è il caso di dire, si normalizzarono. Svanivano le ultime note di Chopin e Piero pensò a Clara. Fu il ricordo della vergogna provata verso di lei a determinare quella associazione. Tra lo non c’era più niente. Ne ebbe, in un attimo, quasi fisicamente, la certezza. La musica che in tutti quegli anni avevano condiviso era il silenzio. Tra lo non c’era più niente. Ne ebbe, in un attimo, quasi fisicamente, la certezza. La musica che in tutti quegli anni avevano condiviso era il silenzio.
Il lunedì ognuno tornò alle proprie cose. Piero a scuola, per la sua lezione alla seconda ora nel terza G. Clara ritornò sul suo tavolo da disegno e tra i suoi lucidi, riprendendo la story board di un nuovo fumetto. Anche Davide e Simona non potevano mancare ai loro piccoli impegni, il primo a scuola elementare, lei nell’ultima classe della scuola materna, entrambi felicemente estranei al mondo esterno, quello al quale i loro genitori fino in fondo appartenevano e dal quale entrambi, con la stessa dedizione, li proteggevano.
A scuola quella mattina Piero aveva in programma di parlare ai suoi ragazzi della musica romantica russa tra fine ‘800 e primi del ‘900. E cominciò a farlo, come era sua abitudine, descrivendo il contesto storico-sociale nel quale quella corrente musicale si era andata affermando.
Stava parlando di questo con i ragazzi tutti che, incantati, ascoltavano quello che per loro era un vero e proprio racconto, quando si ricordò di Chopin. “Le condizioni di vita delle campagne… Il fenomeno dell’urbanizzazione e le sue conseguenze sociali…” In mente gli venivano continuamente solo le note della Polacca di Chopin. Fu un vero e proprio assalto. Ed ancora una volta, cosa non avrebbe mai voluto provare di nuovo, sentì salire da dentro, dal punto più profondo del suo stomaco, quel moto di commozione, che lo portò, ancora una volta, a piangere, irrimediabilmente. L’unica sua difesa fu mettersi gli occhiali da sole. “Scusate ragazzi, mi sto sentendo male”, ed uscì dall’aula.
Aveva perduto la propria sicurezza. Cominciò a temere che quello stato di indicibile prostrazione, quasi che tutto il dolore del mondo gli cadesse addosso, potesse ripresentarsi ancora, cogliendolo impreparato, lasciandolo solo, indifeso, di fronte allo stupore ed all’incomprensione degli altri. E così fu.
Era come se il suo livello di percezione e di consapevolezza avesse subito un processo di esaltazione. Altre volte dovette trattenere la commozione, nascondere le lacrime. Non capiva cosa gli stesse accadendo. Non che prima fosse un uomo senza commozioni. Anzi, si considerava un persona sensibile e così in effetti era visto dagli altri.
Ma non riuscire a controllarsi e provare quel dolore, anche solo per pochi istanti. Quello no, non l’aveva mai provato. Salvo, forse, quando era nato il suo primo figlio. E quando suo padre morì. Adesso, invece, poteva anche capitargli al cinema.
Come gli accadde, fra le altre volte, durante la visione di Schindler’s List. Al cinema, dunque, cominciò a provare una sensazione nuova e diversa, oltre la paura dei giorni passati, che si accompagnava a quelle irruzioni del dolore. Anzi, era una sensazione che gli restava dentro dopo le lacrime, volata via quella nube improvvisa. Era piacere. Un follow up di benessere fisico e morale. Sì, anche morale. Piero, infatti, aveva sempre pensato che al mondo bisogna essere utili.
Bisogna avere valori in cui credere e battaglie ideali per le quali combattere. Gli ultimi, gli sconfitti, gli umiliati, quelli erano la sua parte. E per questa parte da sempre aveva dedicato se non la vita, la sua passione più forte. Nutriva da sempre, tuttavia, una sola remora, una sorta di pudore, rispetto al suo impegno civile: l’inesorabile inerzia della realtà al cambiamento. La vanità se non addirittura l’involontaria retorica del suo impegno le sentiva incombere continuamente sulla sua vita.
Il dolore del mondo – così prese a chiamarlo per descriverlo – metteva a posto le cose. Quelle fulminee ma terribili lacrimazioni lo assolvevano e, allo stesso tempo, lo collocavano in una posizione di elezione rispetto all’indifferenza del mondo, rispetto alla retorica, questa sì insindacabile, del resto delle persone comuni.
“Cosa ne pensi?”, aveva deciso di parlarne con Vincenzo, un suo amico psicologo. Non era certo un esperto, faceva auto-aiuto in una comunità di recupero per tossicodipendenti, ma era un suo amico e qualche dritta poteva comunque dargliela.
“Credi alla reincarnazione?”, gli chiese di botto Vincenzo. Sulle prime Piero esitò. Non capiva. Poi, forse per smarcarsi rispose.
“Certo. Ogni giorno quando mi sveglio”. Vincenzo, invece, ignorando la sua risposta, continuò dritto.
“E di neuroni specchio ha mai sentito parlare?” A questo punto, Piero intese che il tono della conversazione con Vincenzo era quello e basta. Doveva accettarlo, oppure fare a meno della sua opinione.
“Sì, ne ho sentito parlare. Ma non saprei definirli affatto. E poi, cosa c’entrano con la reincarnazione?”
“Lo capirai a tue spese. Se adesso posso ricambiare la battuta. Quanto ai neuroni specchio, si tratta di cellule che conservano la memoria dei sentimenti provati e li trasmettono ai sensi, indipendentemente dalla memoria cosciente delle esperienze vissute. Come potrei spiegarti più semplicemente?… Spiegherebbero, ad esempio, i déja-vù. Ecco, è come se fossero la causa delle sensazioni di déja-vù. Ma non è esattamente così. Le ricerche più recenti hanno dimostrato che già alla nascita è possibile accertarne l’esistenza”.
Paolo rimase confuso. Anche perché non riusciva più a comprendere su quale livello tenere la conversazione con Vincenzo. Si sentiva come uno che insegue qualcuno e non riesce a prenderlo. Rimase, così, in silenzio, in attesa che il suo amico psicologo dicesse un’ultima parola quella definitiva che chiudesse il cerchio di quel giro misterioso di parole.
“Sai, ciò che ha suscitato lo stupore dei ricercatori è che i neuroni specchio esistono se hanno memoria, altrimenti non sarebbe neppure individuabili nel corpo umano. Dunque, se essi esistono già nel momento della nascita, vuol dire…”
“Vuol dire che un essere umano ancor prima di nascere ha già vissuto delle emozioni che i neuroni hanno registrato e trasmesso”, concluse Piero, ripresosi dal torpore dell’ascolto.
“Esatto. Ecco, quindi, il legame con la reincarnazione”. Così il cerchio venne chiuso.
Il tempo trascorse e Piero imparò a convivere con il dolore del mondo. Poi, c’era la spiegazione fantascientifica di Vincenzo, senza possibilità di verifica o di riscontro e, dunque, paradossalmente rassicurante nella sua inattendibilità. Una situazione incomprensibile ma senza immediati effetti negativi era stata, dunque, normalizzata da una spiegazione inverosimile.
Avvenne così che Piero accetto di accompagnare i suoi ragazzi in gita scolastica alla Risiera di San Sabba, in occasione del giorno della memoria, senza valutarne opportunamente le conseguenze.
La musica di quel viaggio fu il silenzio. Piero tacque quando prese coscienza del tranello che la banalità della vita quotidiana gli aveva teso. Restò in silenzio in attesa del dolore del mondo.
E tacquero anche i ragazzi per tutto il viaggio fin dentro il campo di concentramento, obbedendo inconsapevolmente al comando che in quel viaggio solo la realtà esterna, la natura, gli alberi, il cielo, il vento, il freddo e le cose, gli oggetti, il treno, l’autobus, i cancelli, le porte, avessero diritto di parola. Obbedirono anche quei ragazzi che non avevano mai atteso il giorno della memoria. Tacque quando prese coscienza del tranello che la banalità della vita quotidiana gli aveva teso. Restò in silenzio in attesa del dolore del mondo.
La visita di San Sabba sfilò via. Si giunse alla fine del giro senza fiatare, guadando quasi dentro un’altra dimensione. Ed accadde tutto senza misura del tempo. Come quando, al termine del percorso, si trovarono tutti dentro la stanza dei Kapò. Grigia, vuota, silenziosa, avrebbe potuto un tempo ospitare qualsiasi cosa. Era rimasto, tuttavia, la reliquia di uno squallido tavolo a scrittoio verde, per lasciare una traccia di quello che là un giorno era avvenuto: la contabilità del male.
L’ insensibile annotazione del dolore, che man mano aveva riempito il bagaglio di qualcuno per i secoli futuri. Lo scrittoio si sollevava e nascondeva un vano porta documenti. Piero scoprì così, nuotando nel dolore degli altri, che in quella stanza era stato inconsapevolmente preparato quello suo di bagaglio. “Piero Panti, 4 gennaio 1944”, lesse il proprio nome inciso sul legno, sollevando con un gesto meccanico e furtivo lo scrittoio. In quella stanza, dunque, lui c’era, già stato in quella sua precedente vita. Tutto era ormai chiaro.
“Ti prego facciamola finita”, non fu difficile per Piero, figlio di un carabiniere, procurarsi una pistola. “Ti imploro Vincenzo, aiutami. Fammi morire”.
“Tu sei pazzo. Non puoi chiedermi di diventare complice di questa follia”, gli rispose Vincenzo.
“E chi ti assicura che in questo modo tutto finirebbe?”
Tutto era cambiato nella loro vita. Irrimediabilmente stravolto. Nella vita di Piero e in quella di Vincenzo. Quasi per caso, senza aver potuto sia pure minimamente intervenire in quella discesa nel buco nero dell’impossibile, dove si scopre che un incubo può diventare realtà. La cosa più assurda era che la visione dell’incubo era la sola novità. Senza le variazioni del caso Piero non avrebbe aperto gli occhi di fronte al terrore. Ma l’incubo sarebbe continuato, indipendente dalla loro coscienza. Anzi, addirittura, aveva fatto capolino un’altra inattesa novità.
La possibilità di interrompere l’incubo con un colpo di pistola.
Insieme alla sua apparizione, per un gioco naturale di compensazione, il terrore portava con se anche una possibile via di fuga.
“Devo spezzare la catena, Vincenzo. Sono certo che così metterò fine a questa condanna. In tutto c’è una sequenza logica, di un qualsiasi tipo, ma logica. Anche nel mondo dell’impossibile. Si tratta solo di possederne la chiave. Io credo di possedere quella che può aiutarmi”.
“Come darti torto? Ma non lo puoi chiedere a me”, Vincenzo cominciò a far entrare quella situazione incredibile entro il confine della sua realtà di possibilità.
“I greci questa realtà l’avevano intuita. E l’avevano esorcizzata con la creazione del mito. Che cos’è il nostro incubo se non una condanna mitologica come quella di Tantalo o di Sisifo? Non puoi chiedermi questo, Piero. Non puoi”, concluse Vincenzo. Era inaccettabile. Non era neppure pensabile per essere umano, quello che la natura, oltre ogni nostra concepibile percezione, gli aveva riservato.
Piero era stato un carnefice. E per l’eternità avrebbe dovuto portarsi dentro il peso di quella colpa. Salvo tramutarsi, sublimarsi quasi, in vittima innocente, con un colpo di pistola sparato senza movente.
In chiesa, di fronte ad un crocifisso, Piero trovò pace. Indicibile era il dolore che provava. E inaudita fu la quiete che scoprì inginocchiato in quel silenzio.
Cominciò a piangere di commozione, come in passato solo nei sogni gli era capitato. Qualcuno gli mise una mano sulla spalla. Lui restò immobile. Gli parve di bloccare in quella fissità la soluzione della sua tragedia. Si sentiva rasserenato. Voltò il capo all’indietro. Era la mano di Vincenzo.
“Dài, sollevati, Longino.”