La città di Nico
Nico vive in una città fatta di ponti.
Non sono ponti di cemento nè di legno, è una città senza fiumi in superficie.
I ponti fanno da strada alle parole, sono fatti di aria, gesti e sguardi.
Le parole rimbalzano da una parte all’altra della città mescolandosi senza vergogna. Si sovrappongono, si confondono, si fondono e a volte non tornano più alla loro lingua di origine, ma ne sposano altre, diventando felicemente meticce.
Molte di queste storie non sono a lieto fine, mentre altre storie ancora si stanno scrivendo.
Non è importante sapere se questa città ha alberi. Ha persone, tante, alcune con radici ancorate in profondità anche se i rami vanno ormai disordinati in tutte le direzioni. Ci sono anche fiori ed essenze esotiche che non hanno necessariamente bisogno di un terreno per piantarsi.
Ci sono anche giostre, perché i bambini sono molto importanti.
C’è chi ci è finito dentro ed è riuscito a uscirne, così non vuole più nemmeno voltarsi a guardarlo.
L’orizzonte è una geometria complessa, in cui i punti di fuga ci circondano e ci assalgono: piani verticali, sottopassaggi, rovine diroccate, corde per il bucato, altarini, muri bianchi, frutta, spazzatura, antiquariati, teatrini.
Questa città non possiede un centro storico in senso spaziale. Ha invece una memoria storica centrale ed è un mosaico molto grande. C’è tutto il mondo in quel mosaico.
La città di Nico è composta da periferie, che però non sono a margine, non hanno dei confini definiti, esistono in quanto tonalità di colori diversi di un disegno più grande. Si mescolano e sono in continuo movimento.
Questo posto di cui vi parlo è abitato da insegnanti e allievi, ma qui questi ruoli spesso si confondono e si fondono come le parole di cui si fanno tutti portatori.
Il mio viaggio in questa città è sempre ottimista. La visito ogni volta che sento Nico raccontarmi le sue storie. Lei è un’insegnante. Yusuf, Vijita, Fatima imparano a leggere e scrivere. Vanno al museo insieme, fanno cineforum, apprendono di storia. La mescolano a quella dei loro ricordi. Organizzano lunghe tavolate in cui ogni volta si mangiano piatti di diverse tradizioni culinarie. Così nessuno pensa che esista un unico piatto buono al mondo e così tutti hanno diritto ogni tanto ad assaporare la nostalgia di casa.
La cosa che più mi piace di questa città è che è reale.
Un’architetta farlocca laureanda potrebbe pensare che sia un modello interessante di sviluppo urbanistico: facciamo prima fluire parole, storie e cibo e poi pensiamo a parcheggi, fermate per i pullman e cemento. Supponiamo che voglia scriverci addirittura una tesi. Uno scorbutico relatore di tesi spagnolo potrebbe mandare la suddetta architetta a la mierda. Tutto per ipotesi, intendiamoci. Non che sia mai successo.
Questa città – per chi fosse interessato – è a Palermo.