Minchiate
Il bus era affollato. A quell’ora, in corso Buenos Aires, era complicato trovare posto a sedere. Il professore Giovanni Savoca, benemerito cattedratico fresco di pensione, se ne stava in piedi, tranquillo. Fedele alla promessa che si era fatto di godersi nella massima pace quei giorni milanesi, in Continente, come i siciliani chiamano tutto ciò che è oltre lo Stretto. Era venuto su a trovare il figlio, brillante Bocconiano in procinto di laurea, ma anche – e forse soprattutto – per una delle sue periodiche fughe da quella che amava chiamare la solita sicilianità soffocante.
Cosa intendesse non era ben chiaro: quando voleva spiegarlo, partiva con lunghi giri, avvitamenti lessicali, concetti pieni di rimandi, allegorie, racconti presi da lontano. Lui però con la parola era un grande affabulatore e non annoiava mai i suoi interlocutori. Creava ad arte momenti in cui catturava la massima attenzione , quando il suo discorso si faceva più serrato e teso; evocava rivoluzioni sanguinose nel tessuto sociale del siciliano illuminato, quello alto-borghese che non può assistere inerme allo spreco di tanto talento, di tanta potenzialità senza reagire in modo se necessario anche violento: l’alternativa è la noia – capisci? – la noia! E anche la noia può sconfinare in un terreno pericoloso, solo che lì il pericolo è interno, rivolto verso se stessi. Non necessariamente con una concreta azione; al contrario, con la assoluta fiera ostinata in-azione, di cui siamo maestri…
Non l’hai capito? Noi siciliani siamo così, pieni di tutto e alla fine di niente, meravigliosamente inconcludenti…
Aveva una grande ironia e anche una malcelata tendenza al coup de théâtre, per cui nel momento in cui il silenzio dell’ascoltatore era massimo, in attesa che il discorso approdasse da qualche parte, lui si fermava per alcuni lunghi attimi, accigliava la fronte, lasciava intuire scenari ad effetto e poi improvvisamente guardava chi lo stava ascoltando e diceva: ma seconnu tia ‘cchi minchia vogghiu diri??
L’altro farfugliava qualcosa, come sentendosi interrogato e non conoscendo la risposta, ma lui lo soccorreva: guarda, che non c’è una risposta… è che proprio non so cosa voglio dire! Non l’hai capito? Noi siciliani siamo così, pieni di tutto e alla fine di niente, meravigliosamente inconcludenti…
Marco Russo lo scorse dal lato opposto del bus, confuso tra i passeggeri. Faticò a fendere la folla e avvicinarsi, ma non poteva resistere alla voglia di salutarlo. Erano amici, anche se si frequentavano poco; anche lui, come il Prof Savoca, apparteneva alla cosiddetta élite intellettuale panormita, solo che a differenza dell’altro, lui era più schivo, riservato. Era stato un piccolo ma conosciuto editore, per un periodo aveva curato il programma artistico di un paio di teatri cittadini. Adesso, amava rifugiarsi nelle sue letture, sulla sua poltrona vista mare, dal suo buen retiro, nella collina sopra Mondello. Ogni tanto riprendeva per le mani una vecchia agenda e scriveva per ore; diceva che stava scrivendo un capolavoro, e chi lo ascoltava sapeva che c’era del vero in quella affermazione apparentemente paradossale, perché non erano tante le menti intelligenti e colte quanto quella di Marco Russo. Subito dopo, però, aggiungeva: un capolavoro che non si compirà mai. Lo scrivo ma curnutu ìu se lo finisco. E se per caso mi viene questa fernicìa (in siciliano, capriccio, irrequietudine) di finirlo, – diceva alla moglie Teresa – ti para a tia che lo pubblicate dopo che sono morto, sai?
-Perché no? -Perché no. Le mie minchiate geniali sono un fatto privato mio e della mia famiglia.
-Statti sereno, Marco: tanto tu te ne andrai dopo di me. ‘L’erba tinta un mori mai.’
Giovanni lo vide mentre l’amico stava per compiere la sua missione di avvicinamento e gli si illuminò il volto come se avesse visto il sole dopo anni di tenebre: si divincolò tra un nugolo di persone, gli venne incontro e si abbracciarono con un affetto e una platealità molto superiori rispetto a quando si incontravano a Palermo.
-Che piacere Marco, ma che ci fai qua? Non sai quanto sono felice di vederti. Come hai fatto a notarmi in mezzo a stu’ burdello?
-Ma ti pare che uno come te, su un autobus, a Milano, può passare inosservato ai miei occhi? Appena ti vitti mi sono precipitato, a costo di rompere i cabbasisi ad un po’ di incolpevoli milanesi che tentavano con serafica imperturbabilità di leggere un giornale in piedi su un bus nell’ora di punta, esattamente come se fossero comodamente seduti sul cesso di casa.
–Quà vanno di fretta, Marco. Non ci stanno seduti al cesso per ore come facciamo noi quando nni siddìa (ci secca) puru a campare, anche per sfuggire a quelle sante donne (scassacazzi!) delle nostre mogli, che mai ci lascerebbero leggere in santa pace! Ma dimmi, come mai onori i milanesi della tua presenza?
–Niente, un controllino.
-Che… controllino? Mi devi fare preoccupare?
-Niente di grave, tranquillo, non è quello che stai pensando. Con me il cancro non si azzarda, sa che lo piglierei a muzzicuna (a morsi). L’anno scorso sono caduto, mi sono fratturato il femore. Frattura composta, una cosa da niente, ma i nostri ortopedici, giù, sai come sono, no? Insomma, ancora ho qualche camurrìa (seccatura), mia moglie e i ragazzi hanno insistito, hanno cercato su Internet, qualche telefonata e mi hanno preso appuntamento per una visita di controllo qua.
-Semu troppo forti. Dicono che non ci vogliamo muovere dalla nostra isola, eppure viaggiamo sempre: per lavoro, per turismo, per curarci. Altro che pigri e statici…
-E tuo figlio? Sei qua per lui, vero?
-Si! Si laurea domani. Tesi in Finanza internazionale, media altissima. Mi ha dato soddisfazione, u’ picciottu. Certo, ora andrà ad ingrossare le fila dei cervelli meridionali in giro per il mondo, condannati alla sventura della distanza fisica dalla Sicilia e dai suoi odori, e nello stesso tempo baciati dalla fortuna di allontanarsi da quella discrasia.
-Quale discrasia?
-Quella nostra paralizzante, avvilente, irredimibile discrasia tra atto e potenza: tra il potrebbe essere e l’È. Ma cuannu minchia è che stu’ potrebbe essere diventa E’? Potrebbe essere l’isola più bella del mondo. Potrebbe. Campare di turismo, di mare e cultura. Potrebbe. Essere la vera capitale del Mediterraneo. Potrebbe. Diventiamo fuoddi, pazzi, a forza di potrebbe…
-Io ti ammiro, sai? Ti incontro per caso a Milano e capisco che tu sei sempre il solito combattente. Eh no, tu babbìi (scherzi), stoni tutti coi tuoi paradossi, fai il cinico, ma non ti sei arreso. Ti ammiro, davvero. Io mi sono ritirato dalla trincea. Non voglio saperne di niente. La Sicilia non cambierà mai, Giovanni, è irredimibile, come disse la buonanima. É sempre lo stesso binario doppio, Giovà, sono secoli che scorre parallelo. Su un lato della strada c’è il bianco, sull’altro il nero. Senza vie di mezzo, senza sintesi, soprattutto, senza evoluzioni. Se fosse nato da noi, Darwin avrebbe scritto al massimo la teoria sull’evoluzione della cassata… Non è una deformazione patologica transitoria, è la Sicilia, è lei, è così. Una puttana, ma una puttana improbabile, di quelle che ti fanno “addisiari”, disperare, godere ma anche morire, se ci perdi la testa.
Che bello che noi siciliani siamo così. Che bello essere intelligenti! Specialmente quando non serve a niente…
-La Sicilia è tutto, Marco. È araba e normanna, greca e spagnola. È Archimede e Federico II. Sciascia e Pirandello. E poi è Paolo Borsellino. È Giovanni Falcone. E’ Don Pino Puglisi. Ed è anche Totò Riina. È l’impiegato pubblico che si imbosca, è il museo chiuso la domenica, è il milionesimo precario fatto assumere dal milionesimo politico paraculo incapace di tutto, ma capace di costruirsi la sua rete clientelare. Che te lo dico a fare? Te lo leggo negli occhi, amunì, dimmelo, come facevi un tempo!
-Giusto, te lo dico! Giovà… ma chi minchia vo’ diri?
-Minchiate, Marco, minchiate!
-Sono arrivato, Giovà, devo scendere. Mi ha fatto un immenso piacere vederti.
-Anche a me.
Si abbracciarono e Marco scese dall’autobus. Giovanni lo guardava con una specie di sorriso stampato sul volto e un filo impercettibile di malinconia. Ad un certo punto, si destò all’improvviso, bloccò la porta dell’autobus che si stava richiudendo, e lo chiamò forte, temendo che l’altro non lo sentisse. Invece lo sentì.
-Dimmi Giovanni
-Che bello che noi siciliani siamo così. Che bello essere intelligenti! Specialmente quando non serve a niente…
Nota: la foto copertina e quella di chiusura sono di Erika Sichera e sono state scattate a Palermo; le altre sono prese dal web