Il sapore proustiano dell’India
In tutti i posti in cui sono andata ho identificato un odore, un sapore o un colore che poi ho abbinato per sempre a quel particolare luogo. C’è qualcosa di molto proustiano in questo per quanto, in tutta onestà, i miei ricordi hanno sempre poco a che vedere con l’eleganza del sapore delle madeleines.
L’India non fa eccezione anche se la prima volta che ho messo un timido piede nel subcontinente, sono stata letteralmente aggredita. Un vero e proprio vortice di rumori; odori forti e pungenti, al limite del sopportabile; un caldo umido che mozzava il respiro e lasciava i vestiti fradici tanto che mi sono chiesta se fosse possibile che un essere umano contenesse tanto sudore (scusa la parafrasi, Shakespeare). E tutto questo, appena fuori dall’aeroporto.
E io, che mi apprestavo dopo diversi mesi di lontananza, a ricongiungermi con la mia metà migliore che mi attendeva esattamente lì, all’esterno, fuori dai cancelli di sicurezza, avevo perso in un microsecondo tutto lo charme attentamente costruito in sette ore e mezzo di volo. Volevo assomigliare a Audrey Hepburn e invece avevo lo stesso appeal di Don Lurio.
Se me lo avessero detto in anticipo, avrei evitato di cospargermi di oli profumati manco fossi stata un manzo kobe.
Quindi, ecco, il primo approccio con l’India non uccide ma non lascia nemmeno indifferenti. Di sicuro, capisci subito se puoi andare d’accordo o meno conil paese.
Con il passare del tempo, ho imparato che ci sono alcune cose superflue. E’ inutile il fondotinta perché con una temperatura di 53 gradi o diventa una maschera di fango secco oppure inizia a colare impietosamente su tutti i vestiti e alla fine sembri il cattivo di Roger Rabbit subito dopo un bagno nella salamoia. E’inutile cercare di andare in giro con delle scarpe col tacco perchè, a parte l’assenza di marciapiedi che pure potrebbero tornare utili se uno volesse fare una passeggiatina, i 53 gradi sopra menzionati trasformano i tuoi piedi in enormi arrosti e la scarpina con il laccetto alla caviglia ti renderebbe molto simile a Genoveffa, la sorellastra di Cenerentola. E’ inutile farsi venire un infarto se dalle tubature dei tuoi bagni e da quelle della cucina iniziano a salire su bestie varie, come rane, ragnetti o scarafaggi. Si è titolati ad avere un moto di orrore e una crisi isterica solo se dal gabinetto escono fuori bestie di una grandezza superiore a una moneta da due euro.
Fatta questa lunga premessa, dopo anni di ricerche, ho trovato il sapore proustiano dell’India. Che è il sapore dell’estremo, del dolore che poi sfuma in piacere. In una parola, è il sapore del Samosa.
Non so se esiste una traduzione per “Samosa”, se ci fosse probabilmente sarebbe “palla infuocata”. I samosa sono dei fagottini fritti ripieni di patate ma, soprattutto, di spezie. Spezie come se non ci fosse un domani.
L’assaggio del samosa avviene di regola in mezzo alla strada, davanti al baracchino in cui l’omino li frigge in un olio talmente usato da essere praticamente nero. Il primo assaggio del Samosa è un atto di fede. Anche perché, dopo il primo morso che ti fa imprecare, per via del fatto che il fagottino ha una temperatura di sedicimila gradi, succede ‘na cosa brutta. Ti rendi conto che la quantità di spezie è talmente elevata che non solo le patate sono tinte di rosso fuoco ma la tua lingua è raddoppiata di volume. Bere dell’acqua? Scherzi? Non c’è acqua, tranne quella delle tue lacrime che, involontariamente, scendono copiose sulle tue gote che ormai sono rosse quanto il contenuto del samosa. La prima volta che l’ho assaggiato ho pensato “mamortaccivostrimachedaveroaho”. Non l’ho detto perché avevo la bocca piena e cercavo un modo per non soffocare.
Questo è il primo morso. Subito dopo vorresti cercare un cestino per buttarlo maledicendolo in urdu ma succede una cosa strana. Quell’inferno di piccante si dissolve, la lingua torna normale e in bocca rimane uno strano sapore. Un sapore esotico di patate, cumino, coriandolo e paprika. Un sapore dolce, di terre lontane, di scoperte. Un sapore che sarà per sempre il sapore dell’India. L’india che ti colpisce, ti scandalizza e forse si fa pure un po’ odiare all’inizio ma che poi ti conquista, ti fa amare il suo essere estrema, il suo essere piccante, spicy come dicono qui. E allora sì, pur sapendo che soffrirai, darai un secondo morso al tuo samosa. E diventerà un piccolo scrigno aperto sulle mille sfaccettature di un continente.