Licia
Il Natale che passammo con Licia e i suoi bambini fu una festa speciale. Dicembre aveva rinnegato tutto ciò che gli apparteneva per diritto e tradizione: il freddo, il vento di maestrale che gonfiava il mare, la neve sulle cime dei monti che circondavano la città.
Sentivamo l’aria di festa scivolarci fra le dita, avvolgerci nel tepore rassicurante delle cose che si ripetono: la scelta dei doni, la ricerca degli addobbi natalizi, la selezione dei cibi da adagiare sulla tovaglia rossa che avrebbe ricoperto la tavola da pranzo. Tutto questo ci regalava il placido piacere di crogiolarci nell’attesa.
Licia si era assunta il compito di preparare i tradizionali dolci natalizi. Le sue mani grassocce, dalle dita segnate da fregi di scottature e tagli, lavoravano rapide ed esperte: impastavano farina, trituravano mandorle, friggevano, mantecavano, e intanto lei parlava, come se quegli arti non fossero stati comandati dal suo cervello. “Il segreto per una buona cubaita- diceva- sta nello stendere la pasta sul marmo dove è stato spremuto abbondante succo di limone.” L’ aveva imparato da sua nonna, aveva soggiunto, nella casa di campagna dove si riuniva tutta la famiglia nelle occasioni di festa.
“Era tutto molto bello allora – aveva sospirato – Mi sembra siano passati secoli da quando stavamo tutti assieme, nonni, zii, cugini…” Nel dirlo i suoi occhi avevano avuto come uno spegnimento e aveva subito cambiato discorso. “Dai, passami il miele, Flora– aveva detto a mia moglie che la guardava sperando di imparare a preparare anche lei quelle leccornie. Io assistevo, inerte ma disponibile a sbrigare qualche piccola commissione esterna nel caso fosse mancato qualcosa.
Licia si era insediata nel nostro palazzo la mattina di un lunedì di Pasqua. I suoi pochi mobili erano stipati in un camioncino e venivano trasportati a braccia, uno alla volta, fino al suo appartamento, situato a fianco al nostro.
Il tramestio ci aveva incuriosito e Flora aveva aperto la porta di casa e messo fuori la testa. Due ragazzini, un maschio e una femmina, stavano attaccati alla ringhiera delle scale, lo sguardo spaurito, le mani allacciate come a volere palesare il legame che li univa. Flora si era avvicinata a loro e aveva chiesto se avevano bisogno di qualcosa.
Subito una donna vestita di nero, con una grossa treccia sulle spalle, si era parata davanti ai due ragazzini. “Grazie, non abbiamo bisogno di niente” – aveva detto. Aveva spinto i figli dentro casa ed era rimasta sulle scale ad aspettare che gli uomini di fatica finissero di portarle su i mobili. Ma due giorni dopo aveva bussato alla nostra porta.
Ad occhi bassi, quasi vergognandosi di quello che stava per chiedere, aveva detto che Sara, sua figlia, si era tagliata un dito. “É una ferita profonda e sta perdendo molto sangue, forse ha bisogno che le mettano dei punti.”
Sara stava sul pianerottolo, la mano avvolta in una salvietta di spugna già tutta intrisa di sangue. Lo sguardo impaurito chiedeva aiuto in un silenzio caparbio. “Sono sola, non so come fare per portarla al pronto soccorso.”
Era evidente che le costava chiedere aiuto. “Niente paura, piccola – Flora aveva cercato di rassicurare Sara – tranquilla, adesso vi accompagno io.”
Due ore dopo erano già di ritorno. Sara teneva la manina fasciata sul petto, i suoi occhi erano sereni, rassicurati da quell’aiuto che le era stato offerto.
La gratitudine di Licia si era convertita presto in un’amicizia carica d’affetto.
Dopo qualche settimana dall’arrivo di Licia, il nostro portinaio aveva iniziato a mostrare una certa inquietudine e quando, passando davanti alla guardiola, lo salutavo mi lanciava sguardi che sembrava volessero dirmi qualcosa. Finché un giorno avevo deciso di fermarmi e domandargli se avesse avuto qualcosa da comunicarmi. Uscito dal suo abitacolo, si era accostato a me e con circospezione mi aveva detto: “Sapete della signora Licia?”
“E cosa dovremmo sapere?”
“Che nun avi maritu, per esempio.”
“Sì, certo, è vedova.”
“E sapete comu è mortu ‘u marito?”
“No, perché dovremmo saperlo? ”
“Il marito ce l’ammazzò la mafia.”
Anche se la notizia mi aveva sbigottito, avevo fatto del mio meglio per mostrarmi indifferente.
“Sono cose che non ci riguardano.”
“ ‘U patri della signora è un pentitu, fa ‘u collaboratore di giustizia e la mafia pi vendetta ci ammazzò ‘u marito alla figlia. Questo è un palazzo di gente per bene- aveva continuato -picchì si nni vinni a stari cca? Chisti sunnu guai, ci lu dicu iu.”
“Ma figurati! Che colpa hanno la signora e i suoi figli per ciò che è accaduto? Buona giornata, Paolino.”
Percorrendo la piazza del Borgo Vecchio avevo pensato alla mia adolescenza vissuta fra quelle pietre antiche. Il rione era alle spalle del porto e in quegli anni era il ritrovo dalla piccola delinquenza: contrabbando, furtarelli, prostituzione. Lo frequentavano i marinai, i bottegai dei dintorni, i picciotti che si atteggiavano a malandrini. Ero cresciuto lì, avevo fatto a pugni e giocato con i ragazzi che un giorno sarebbero diventati i boss della città.
Ero stato spalla a spalla con quelli che in seguito avrebbero superato il limite della liceità, ma ero riuscito a restarne fuori. Non so come e perché ero stato in grado di non oltrepassare quella sottilissima linea di confine che divide il bene dal male. Un passo falso, un minimo errore, e anche io avrei potuto ritrovarmi dall’altra parte. Ero stato spalla a spalla con quelli che in seguito avrebbero superato il limite della liceità, ma ero riuscito a restarne fuori.
Le parole del mio portinaio mi ronzavano nella testa. Pensavo alla diffidenza che Licia aveva mostrato i primi giorni del suo trasferimento nell’appartamento accanto al nostro, alla paura di Sara e alla sua silenziosa richiesta di aiuto. Riflettevo su come doveva essere difficile per tutti loro vivere con il peso di quella verità che cercavano di occultare, pesare le parole, stare sempre all’erta per non commettere passi falsi. E sentivo nascere dentro di me una sorta di compassione per quelle tre creature immerse in una realtà di cui non avevano colpe dirette.
Flora ed io decidemmo di fingere d’ignorare, e con Licia e i bambini continuammo a frequentarci. Lei aveva allentato la tensione, era serena, faceva progetti per il futuro di Marco e Sara. Di altro non si parlò mai.
Quell’ultimo Natale era trascorso nella letizia. Marco e Sara erano stati felici per i doni ricevuti e avevano voluto giocare a carte fino a tardi. Infine ci eravamo salutati con il solito “arrivederci a domani”.
Ma quando, il mattino dopo, Flora aveva bussato alla porta di Licia non aveva ottenuto risposta. Aveva bussato ancora e ancora ma dall’altra parte non arrivava nessun segno di vita. Preoccupata per quel silenzio aveva provato a telefonare, ma il risultato era stato lo stesso. Ci chiedevamo a chi avremmo potuto rivolgerci per sapere cosa fosse successo ma per quanti sforzi mentali facessimo non trovavamo soluzione: non avevamo nessun punto di riferimento. L’unica cosa che ci restava da fare era chiedere a Paolino se avesse visto o sentito qualcosa che potesse aiutarci a capire. “Di sapiri, nun sacciu nenti -ci aveva detto quando l’avevamo interpellato- però mi fici un’idea.” La nostra preoccupazione si andava tramutando in angoscia.
“Secunnu mia si li purtaru ammucciuni” – Paolino indugiava. Poi, con le mani a coppa intorno alla bocca, accostandosi al mio orecchio, aveva detto: “Programma di protezioni.”
Di fronte a quella possibilità a cui non avevamo mai pensato, Flora ed io ci eravamo scambiati uno sguardo smarrito. Avevamo capito che nessuno avrebbe potuto aiutarci, che Licia e i suoi ragazzi erano stati inghiottiti da un pozzo profondo dal quale non sarebbero emersi mai più.
Davanti alla porta di casa il silenzio ci era sembrato un urlo disperato.