Ermeneutica della gita. Da Ben Harper a Masha e Orso
Erano le sei del mattino.
A chi viene in mente di partire alle sei del mattino?
Ripassavo ancora mentalmente il monologo che avevi fatto al telefono circa cinque ore fa, mentre tentavo di addormentarmi, riguardo alla necessità impellente che ti era sopraggiunta di partire. Le parole ricorrenti che avevi usato e che riuscivo a ricordare erano state: pantano, stress, noi due, gita.
Ci sono voli o treni o appuntamenti che ci obbligano a partire alle sei e anche prima. Perché ci sono aerei e corse da prendere e posti dove dobbiamo arrivare.
Alle sei del mattino uscivo dal palazzo, senza aerei da prendere o posti dove arrivare, la tua macchina era ferma al solito angolo. Tutto attorno era silenzioso e tu avevi un sorriso molto divertente e troppo energetico per i miei gusti. Io barcollavo ancora un po’ dal sonno ed elencavo tutte le ragioni per cui avrei preferito starmene a letto.
Mentre salivo in macchina mi hai allungato la mano con il caffè. Sembravi in quel momento felice e meno in ansia rispetto alla notte prima, meglio così.
Dove andiamo? – chiedo. Non lo so – mi rispondi. Ottimo inizio.
Dove andiamo?, chiedo. Non lo so, mi rispondi. Ottimo inizio.
Le gite sono terapeutiche. L’ho sempre pensato. Avevamo scattato una foto prima della partenza, la posizione fiera della faccia sembrava quella di vecchi viaggiatori con la barba di fronte ad una spedizione importantissima.
In realtà, conoscendo le mie ansie, di sicuro ripassavo rapidamente la trama del film Thelma & Louise sperando che una foto felice di noi due non fosse l’elemento scatenante di un dramma apocalittico.
Mi piacciono molto i film in cui ci sono dei personaggi che partono. In cui le scene e i dialoghi più belli sono fatti da persone in viaggio. Lasciamo stare le povere Thelma e Louise, quello è un genere di gita che in questo momento della mia vita non risulta tanto attraente (quasi ogni donna attraversa una sorta di periodo in cui il viaggio di quelle due pare l’unica scelta possibile).
Vogliamo mettere invece i deliziosi estranei di Prima dell’alba, al loro primo incontro nel treno? Oppure, per non far sembrare questo discorso troppo romantico, chi non vorrebbe viaggiare con la famiglia strampalata di Little Miss Sunshine? Un pullman anni ’70, un nonno eroinomane e uno zio gay amante di Proust. Quella mi sembra il prototipo di una gita perfetta.
Il discorso a cui sto pensando riguarda gli ampi spazi della nostra vita dove ci troviamo a correre e non riusciamo a incontrarci quasi mai: le strade, le città, il nostro caos quotidiano. E lo so che comunichiamo in mille modi. Davvero è così?
E lo so che comunichiamo in mille modi. Davvero è così?
Quel giorno avevamo scelto la musica e mi era parsa un’ottima idea perché la mancanza di sonno avrebbe reso molto difficoltoso affrontare altre storie. A proposito, la colonna sonora è un elemento molto importante quando si va in gita e la tecnica dell’assemblaggio musicale si va affinando col tempo: negli anni si passa da lunghissime raccolte di tutto ciò che ci viene in mente (il più delle volte composte da canzoni imbarazzanti da cantare a squarciagola), a cd più semplici con meno pezzi, fino ad arrivare con l’esperienza, a quelle sonorità essenziali che parlano per noi, ci ispirano o che ci tramortiscono in catartiche nostalgie.
Quel giorno ricordo che il primo a prendere la parola in quel mix di centomila canzoni era stato Ben Harper, con una canzone che si chiama Walk away. Dal silenzio e la luce tenue, erano partite queste note bellissime di chitarra. Ad un tratto, vi dico, c’era la città più delirante e caotica del mondo in rispettoso silenzio a passarmi accanto al finestrino. Di lì a poco erano iniziati anche i discorsi dai quali avevamo sicuramente tratto delle conclusioni sui nostri problemi, sull’umanità e sull’amore. Conclusioni abbastanza stupide immagino, me ne rendo conto ora.
Sono passati tanti anni e la mia memoria si è concentrata di più sul ritorno, in cui il serbatoio dell’acqua della macchina si è rotto e il viaggio ha preso tutt’altro tono: è durato un’eternità e più che parlare, alla fine, ci scambiavamo dei rumori che suonavano più come imprecazioni ad ogni pausa forzata per far raffreddare il motore. Forse anche questo insegnano le gite, a concentrarsi sulle cose importanti. Fai controllare la macchina no? La macchina, forse, durerà di più di quella relazione che ti ha fatto impantanare, e stressare e poi fuggire alle sei del mattino.
La gita ti insegna: ci saranno altri viaggi, con altre persone, nuove musiche e nuovi panorami da vedere.
Le gite sono importanti!
Ora immagino l’insorgere di chi penserà che sono discorsi di qualcuno che ha il tempo di fuggire, di chi prende un amico e va, di beata giovinezza o robe varie così, ma posso assicurarvi che le gite sono meravigliose anche quando i tempi cambiano e gli spazi si riempiono di nuovi personaggi (e tanti bagagli): compagne, compagni, mariti e mogli, ma soprattutto, figli. Gli equilibri cambiano. Il metodo terapeutico pure. Per esempio, non hai più il diritto di scegliere la colonna sonora. Vincerà sempre irrimediabilmente L’igiene personale, cantata da Masha e Orso. Al dodicesimo ascolto, quando guarderai fuori dal finestrino, la città delirante e caotica ti sembrerà molto meno ostile. Respira, i tuoi problemi svaniranno.
L’ermeneutica delle gite. La terapia che fa cambiare le tue prospettive.