Monaco di Baviera, più che mai la mia città
Monaco l’ho sempre pensata come la città più sicura del mondo. Vi ho vissuto ventinove anni con le porte aperte, la figlia in giro di sera con il cane, i ritorni con i mezzi pubblici di notte dopo gli spettacoli. L’ho vissuta ventinove anni come la mia città. Lo è, lo resta, ora che tra breve la lascerò. Mi ci sono trasferita a ventiquattro anni, ancora studentessa – con poche parole di tedesco nel carnet – in treno insieme ai migranti del sud che tornavano al loro esilio con la valigia di pelle marrone del nonno, il salame legato con lo spago alla maniglia, regalo dei parenti. Con l’odore di piedi e di sudore, e qualche malandrino (quasi sempre italiano) che ti addormentava con lo spray in cuccetta per rubarti i pochi spiccioli che portavi nel viaggio. Quelli ci sono sempre stati: salivano al Brennero dove facevamo sosta più di un’ora per il controllo documenti, c’era sempre qualche porta di scompartimento che non chiudeva o si scassinava bene, allora. E ci saranno anche ora che sono rimasti pochi treni, sostituiti dai voli low-cost.
Ancora poche settimane fa mia figlia andava a scuola in metrò e si fermava all’uscita insieme ai compagni al PEP a prendersi uno spuntino da Mac Donald’s, a guardare qualche vetrina, godere le prime libertà di adolescente. Trattasi di un centro commerciale uguale a quello dove ha avuto luogo la sparatoria di ieri, l’OEZ, entrambi tra i più vecchi shopping-mall di Monaco, situati in quartieri proletari e multietnici. E quando lo sapevano le mamme italiane mi guardavano con rabbia mista a compassione: una povera scellerata che manda la figlia allo sbaraglio. Ma io lo sapevo bene, la mia città, Monaco, è una delle più sicure del mondo.
Anche adesso che è diventata la porta sud delle nuove migrazioni. Anche se sono già stati sventati o fermati diversi episodi di violenza civile, anche se intorno alla stazione e nei centri accoglienza straripanti la situazione non è rosea. Io non ho paura.
L’ho sempre pensata come la città più sicura del mondo. Vi ho vissuto ventinove anni con le porte aperte, la figlia in giro di sera con il cane, i ritorni con i mezzi pubblici di notte dopo gli spettacoli.
La notizia della sparatoria di ieri mi ha colto qui in Toscana, mentre faccio le prove tecniche di ritorno alla vita italiana dopo quasi trenta anni da migrante.
Non ho saputo cosa pensare, non lo so tutt’ora cosa è successo e chi è l’attentatore che ha sparato sulla folla, un altro ragazzo come tanti che conosco personalmente a Monaco originario di una famiglia persiana/afgana/balcanica ma nato e cresciuto in Baviera. A confronto tra culture diverse, troppo diverse; a combattere per percorsi di integrazione ricchi di complessità, nel bene e nel male. Tra le tante persone con le quali ho parlato molte volte, la maggior parte di loro grate comunque, consapevoli, di aver avuto qui una chance altrove negata.
Mi accorgo, esperisco di persona, che sono proprio questi nuovi europei i meno aperti verso i nuovi arrivati, che inquadrano come portatori di ombre del passato, usurpatori di un benessere che già ha mostrato la carie, che ogni giorno si fa scarso per tutti noi europei, vecchi e nuovi.
Si è sparato su minori: bambini, membri di famiglie, adolescenti che in una città sicura e libera vanno in un centro commerciale a passare qualche ora festeggiando l’imminente inizio delle vacanze scolastiche.
Penso che sia la mia vita, la nostra, di tutti. Sono i nostri figli, che abbiamo chiamato a questo mondo dove non sappiamo, non vogliamo più amministrare in pace. Penso che da questo guerreggiare diffuso non abbiamo più modo di proteggerci. Il problema non è solo terrorismo da considerarsi veramente tale quanto il sempre più dilagante disagio del singolo schiacciato tra diverse forme di delirio della nostra società: potenza/impotenza, diversità/identità, appartenenza/difformità, benessere/eccesso di benessere. La follia che ci investe tutti, di striscio o in pieno.
Si è sparato su minori: bambini, membri di famiglie, adolescenti che in una città sicura e libera vanno in un centro commerciale a passare qualche ora
Ma non sono “Fallaciana”, e non lo sarò mai. Non c’è un fanatismo peggiore e uno migliore, e ci sono troppe comunità che si sentono depositarie del “giusto”.
Le prime vittime le fanno a casa propria, non tollerando il pensiero e l’azione di chi si affranca dalle leggi del gruppo. Piuttosto mi preoccupa una cultura del sopruso che si amplifica ogni giorno, che si sdogana attraverso forme di asservimento subdole e striscianti, che si impadronisce di noi e ci porta ad essere sempre meno empatici, accoglienti, pacifici. Ci obbliga a sentirci più minacciati, meno fortunati. Eppure, ancora lo siamo, fortunati, qui. E molti di coloro che sono venuti e vengono in giro per confini lo sanno, a partire da me.
Sono diventata una donna libera e indipendente a Monaco di Baviera, una delle città più civili e sicure del mondo. Se metto ventinove anni di vita sulla bilancia, ho avuto tanto da questa città.
Spero che nonostante questa ferita grondante torni fiera dei suoi carismi, torni forte e libera, a splendere delle sue ricchezze più grandi che sono i suoi cittadini, quelli che non importa da dove sono venuti – magari da un altro paese come me – ma sono fieri di essere suoi figli.