Nizza: ripartiamo da qui
Non sono nessuno per dire la mia su quanto accaduto a Nizza durante la commemorazione della presa della Bastiglia. Quello che segue è soltanto un susseguirsi di riflessioni scaturite nel momento in cui ho appreso la notizia, ma sono da considerarsi assolutamente personali.
Mi sveglio. Ancora prima di aprire gli occhi so già cosa è successo a Nizza: me lo ha detto la sveglia, puntata alle 8:00, l’ora del giornale radio. Esattamente dieci giorni fa passeggiavo per il centro di Nizza, città che reputo troppo snob per i miei gusti ma che, impossibile negarlo, sa il suo conto. Ho attraversato la Promenade des Anglais, la conosco bene. Pensavo di conoscerla. Cosa è andato storto, nel mentre? Perché questo scempio improvviso, se dieci giorni fa tutto andava bene? No, non è successo niente. È solo la follia che non si fa grossi problemi a demolire la quiete della norma. Si dice che ci vuole un attimo ad infuocare un bosco che ha impiegato decenni a crescere. Per distruggere basta un istante.
Il responsabile della strage aveva origini straniere, sì. Come me, d’altronde. Solo che per me questa radice biforcuta non è altro che uno dei tanti fattori identitari che mi compongono. E tale dovrebbe essere per tutti, un fattore identitario fra gli altri, un po’ come avere i capelli rossi. Immaginiamoci che, dall’oggi al domani, ci venissero a dire che tutti quelli con i capelli biondi stanno facendo stragi nei luoghi più disparati il mondo. Peccato che dietro alcuni fattori identitari più che dietro altri si nascondano fantasmi simbolici, che il rompicapo dell’identità non sia composto da pezzi tutti uguali ma che alcuni siano principali rispetto ad altri e che l’ordine è diverso in ognuno.
Immaginiamoci che, dall’oggi al domani, ci venissero a dire che tutti quelli con i capelli biondi stanno facendo stragi nei luoghi più disparati il mondo
Ecco allora che non resta che inscenare reazioni spropositate a questi cambiamenti. Se c’è una distinzione da fare, non è quella fra occidente e oriente, islam e cristianesimo, terroristi e populisti, ma quella fra chi si adegua ai cambiamenti da chi preferisce voltarsi indietro alla ricerca di un rassicurante passato.
Non è doloroso il cambiamento in sé, è doloroso opporgli resistenza
E gli altri? Sono minoranze violente a gettare l’umanità intera in un’insicurezza che rischia di sfociare nel panico incontrollato. Per il resto, ci sono tutte quelle persone che riescono ancora a guardarsi allo specchio e a trovare una coerenza in ciò che sono, a trovare un’identità anche nella molteplicità, nella mescolanza, nella globalizzazione. Le persone che vedendo due elementi avvicinarsi non temono lo scontro ma auspicano lo scambio bidirezionale. Il resto, semplicemente, è un tumore, un rigurgito di passato che riemerge senza tenere conto del presente.
Non sono l’unica a pensare che il problema è identitario. La risposta, che però non ci risparmierà altri morti e che non esenta la classe dirigente dal prendere altre misure, sta nel riuscire a mutare di fronte ai mutamenti pur restando, in fondo, sé stessi. Penso alla generazione che ha preceduto la mia, che ancora vive con un senso di disappunto il disfacimento dell’Occidente a cui erano abituati.
[Giusto per fare un esempio, sto dettando al telefono la bozza di questo articolo vicino alla stazione di Padova e mi sfrecciano accanto in bici una ragazza forse marocchina e un ragazzo africano, forse senegalese. Per me è normale, sono nata così. I miei genitori, no. Ma il problema non è il cambiamento in sé ma la reazione al cambiamento.]
Sono una seconda generazione anche io: perché tanti ragazzi con una storia in parte simile alla mia, che vivono una quotidianità iperconnessa, precaria, semivuota e troppo piena proprio come la mia, decidono di farsi saltare in aria andando ad attingere alla parte più macabra della tradizione dei loro genitori e nonni? E gli italiani, perché si nascondono dietro muri e indossano paraocchi con disegnata sopra una grottesca idea di purezza tradizionale e culturale? Mi rispondo con una riflessione tanto semplice da essere quasi banale: sono italiana da sempre, qualcuno intende minare la mia tranquillità, io ho paura. Sono italo-marocchina, italo-libanese, italo-algerina, italo qualcos’altro, e vivo in un paese X dell’Occidente, nel pieno progresso e in uno stato democratico, ma non mi rispecchio nella società che mi ha cresciuto: è triste, ma non è la fine del mondo, avrò comunque un’alternativa, quella dell’altra metà di me, che forse ha definito quel mio costante senso di solitudine e isolamento, quella che ho nascosto quando ancora non andava di moda parlare a voce alta di quelli come me, figli di immigrati almeno per metà. Si sa quel che si lascia ma non si sa quel che si trova, ma spesso basta la certezza di ciò che si lascia, di sbarazzarsene per sempre.
I ragazzi che si sono fatti saltare in aria finora erano in gran parte ragazzi che non ritenevano la religione una questione prioritaria, non erano fanatici religiosi. Si sono aggrappati alla bandiera dell’ISIS per dire avere un vessillo e dire: “io appartengo quel gruppo con quelle caratteristiche. io sono quello”, e ammirarsi da fuori e non vedersi soli.
Ci vuole coraggio, molto più coraggio, a rimanere nella molteplicità e dire che sì, io sottoscritta, Leyla Khalil, sono italo-libanese, castana, porto gli occhiali, lesbica in un’italia così restia a concedere diritti agli omosessuali, mediatrice linguistica in un paese dove tutti e noi ancora di più viviamo il precariato fino a sanguinare, scrittrice di tanto in tanto, insegnante di italiano e addetta alla vendita in altri momenti, che mi piace la pizza e la cioccolata, che so dove sono i supplì più buoni di Roma, che ho piantato il mio basilico sul balcone e adoro ritagliarmi un’ora per fare colazione ma ho le minestre in polvere in dispensa, che sono non credente in una famiglia con padre cristiano maronita e madre cattolica, che so essere una chiacchierona alla ricerca di fiumi di parole e so essere orso introverso isolato nella sua camera per giorni. Dico “e”, non dico “ma”, perché una cosa non esclude l’altra. È più difficile, sì, ma a me piace. E quando una cosa piace non serve giustificarla: basta il piacere stesso. Potrei insegnare forse il gusto per le sfaccettature. Insegnare che sono belle e che anch’esse hanno lati positivi.
Questa della molteplicità è una risposta che mi sono creata per mancanza di alternative. “Il precariato è bello perché mi permette di fare mille esperienze senza precludermi nulla”. Certo. Ma forse qualche secolo fa sarei stata altrettanto felice, facendo il lavoro dei miei sogni dai vent’anni fino alla fine dei miei giorni. Lo ripeto: è tutta questione di adeguarsi ai cambiamenti. Viviamo in contesti che non possiamo ignorare, di cui dobbiamo tener contro se intendiamo perseguire una qualche forma di felicità. Altrimenti, si fa presto a giungere alla disperazione, alle bombe, all’odio, a farsi saltare in aria. Ecco.
Questo è quello che ho pensato oggi, mentre la radiosveglia mi raccontava di quanto è accaduto a Nizza, proprio mentre i francesi festeggiavano la Libertà. E l’Uguaglianza, e la Fraternità.
Spengo la radio e cerco di conservare soltanto quelle tre parole: ripartiamo da qua, senza paura dei cambiamenti.