Giù le mani dalle donne!
Ancora violenza sulle donne ed io, che a questo punto dell’Italia sento di avere una percezione molto lontana dal reale, mi chiedo se stiamo parlando davvero del mio Paese.
Non sto qui ad elencare i casi di cronaca, li conoscete meglio di me. Le nefandezze sono all’ordine del giorno ed i media stanno lì a ricordarcelo ad ogni pié sospinto. Mi soffermo invece sui dati dell’Istat, che ora più che mai parlano chiaro. In questa prima metà del 2016 sono stati denunciati già trenta femminicidi: trenta donne sono state ammazzate da membri del nucleo familiare o da persone con cui avevano una relazione. La media è di centoventi casi l’anno, con un picco di centosettantanove casi registrati nel 2013. Notare che i numeri sono al netto di tutti gli episodi di violenza con esito non mortale. Ossia gli abusi, le intimidazioni e le molestie che non portano, fisicamente, all’altro mondo – molti dei quali, il 12% secondo l’Istat – non vengono denunciati dalle vittime per paura di subire ritorsioni.
Per chi alzi ancora il sopracciglio leggendo sui giornali gli articoli dei corrispondenti esteri che raccontano di donne lapidate o sfregiate dall’acido, magari sospirando e commentando ad alta voce che bestie!, faccio notare che qui si sta parlando dell’Italia. Per chi del Nord invece guardasse al Sud con superiorità ricordo che lo studio dell’Istat coinvolge l’Italia intera. E manco a farlo apposta, rivela che le regioni con il maggior numero di femminicidi sono il Lazio e la Lombardia. Con, nel 2014, un aumento del 8.3% dei casi al Nord.
A macchiarsi le mani di sangue ci stanno in prima posizione gli ex (ex fidanzati, ex mariti, ex conviventi) seguiti nella lista della vergogna dai partner: quelli che, in un mondo normale, una donna dovrebbero amarla, non ammazzarla. È una questione di educazione e, in primo luogo, di accettazione dei no. I no del compagno di giochi che non ti vuole prestare la palla, i no dei compagni di scuola che non ti passano il compito, degli insegnanti che ti invitano a stare in silenzio – e se non lo fai scatta la nota. Del docente universitario che ti boccia all’esame, dell’azienda che non ti assume perché “abbiamo optato per un candidato più qualificato”. I no degli amici che se scherzi ancora così pesante se ne vanno per la propria strada, della ragazza con cui sei uscito per mesi e che ora non ti vuole più. Il mondo è pieno di no da digerire. Ma se mamma e papà non ti insegnano ad averci a che fare i no ti trasformano in un mostro. Ti fanno picchiare gli amici, diventare il bullo della scuola, il frustrato “il cui valore non viene riconosciuto dagli insegnanti” (e poi magari dai datori di lavoro). La vittima, l’incompreso, oppure il carnefice, quello che ha più valore degli altri e quindi potere su tutto. L’omicida che dà fuoco alla fidanzata, che soffoca la moglie con le proprie mani davanti ai figli. L’adolescente che stupra una coetanea davanti agli amici, sia ben inteso, aspettando educatamente il proprio turno.
Si parla di educazione sessuale a scuola. Ben venga, ma a parte le differenze tra pillola e preservativo a dover essere insegnato è molto altro, è l’educazione ad una corretta gestione dei sentimenti. Che dovrebbe arrivare in primis dalla famiglia. Ma che, con genitori che danno soldi, vestiti e tecnologia invece di tempo, esempio ed amore, non ci resta che sperare venga impartita quantomeno dalle istituzioni. Per scoprire come funziona il sistema riproduttivo non ci serve più un’enciclopedia, basta un click. Ma la gestione delle emozioni, della gioia, della rabbia – quella è la sfida di tutti, adulti inclusi. Mi chiedo se, ogni qualvolta un genitore cede ai capricci dei figli, si renda conto che lo sta crescendo debole, poco equipaggiato ad affrontare le rogne della vita. E per rogne intendo i fallimenti e le delusioni – i no che, vita docet, sono lo sterco che concima la terra, ma che per molti sono il male insormontabile da sconfiggere con la violenza. Mi chiedo se un genitore a crescer figli deboli capisca che sta allevandosi in seno un pericolo, per sé e per la società. Quando gli affetti sono coinvolti è molto difficile usare lungimiranza e la cecità sembra essere l’accessorio più comodo da indossare. Non smettono di turbarmi le dichiarazioni di madri e padri che, dinnanzi all’evidenza, al reato commesso dal figlio o dalla figlia, negano ostinatamente perché “mio figlio è un ragazzo modello, mio figlio non è un assassino”.
Mi sono imbattuta per caso sul commento allo stupro di gruppo avvenuto nel salernitano, che un uomo ha messo in rete qualche settimana fa. Ad un’affermazione del tipo “invece di preoccuparvi se vostro figlio è gay, preoccupatevi sa va in giro a stuprare le ragazze” rispondeva dicendo che ai violentatori quantomeno piacciono le donne.
Ora non starò qui a ripetere, o forse anche sì, che essere gay non rappresenta né un reato né una violazione di diritti ma è invece una condizione, come lo è essere etero o bisessuale, che è un diritto inalienabile poter vivere in piena libertà (altra sfida della nostra piccola Italia). Ma sottolineerò un concetto, in modo semplice perché solo con le parole elementari si può sperare d’intendersi con le menti elementari. Un uomo non è tale perché gli piacciono le donne. Un uomo è tale perché sa attribuire il giusto valore alla vita, le sua e quella degli altri. Se ne fa carico, la protegge e la rispetta. Tutto il resto è ignoranza da educare.