L’arte di salutare
Salutare o lasciarsi salutare prima di partire o lasciar partire è sempre difficile. Non ce lo insegnano, non siamo mai pronti. Anche con anni di esercizi e un bagaglio pieno di lacrime seppellite in stazioni, aeroporti, marciapiedi, spiagge. Non lo sappiamo fare. Non lo so fare. E non voglio nemmeno imparare. L’abbraccio di chi se n’è andato mi ha colta in fallo, mi ha preso gli occhi con prepotenza. Non volevo piangere. Perché chi se ne va, anche se convinto, ha sempre mille e più nodi alla bocca dello stomaco. Punti interrogativi che si affollano sulla pelle, tra i capelli, sui quaderni, tra le rughe. E se piangi allarghi un po’ la ferita che condividete.
Si dicevano che la vita è bella, che se saluti qualcuno con tanto trasporto è perché ce l’hai dentro. E se ce lo hai dentro non lo perdi, non puoi, lo dice la fisica, la biologia, la scienza. Ce lo hai incastrato dentro.
Le ho sentite dirsi che se saluti è perché inizi qualcosa di nuovo, e lo inizi con le storie di oggi che si mescolano a quelle di ieri e ti aiutano in quelle di domani. Parlavano così soavemente che le abbiamo lasciate scorrere, come il fiume che ci ha prese in pieno mentre parlavamo e mangiavamo con i piedi rivolti al fiume e lo sguardo sul ponte.
Non si impara a dire addio, forse si può solo imparare a dirsi “A presto!”
E dunque a presto. Il resto già lo sai. Si è sciolto negli abbracci, ce lo hai già addosso.