Io, l’isola e gli inglesi (C’est la vie)
Sono così stanco che mi accorgo di avere il corpo piegato a sinistra solamente quando l’orecchio sinistro si congiunge con la spalla. Sono sudato, sporco, indosso ancora i vestiti del lavoro. Ho passato un pomeriggio intero a pulire vetri di fronte ad un sole africano, a lucidare cessi, bestemmiare in dialetto lunigianese di fronte a inglesi che circolavano per l’hotel a piedi nudi. Probabilmente ho una macchia nera sullo zigomo destro. A fine turno, prima di uscire nel marasma di questa puttanissima isola, mi sono sciacquato viso, collo, braccia. Il sudore mi ha detto: grazie, mischia pure a tuo piacimento.
Eppure mi sento figo. Mi atteggio da figo. Probabilmente non si nota. Io lo noto. E in fondo ci può anche stare: è il mio orgoglio che si ribella. Alla merda, agli inglesi, all’isola, al niente. Te lo faccio vedere io.
Il pub è piccolo e giallo e arredato a cazzo. Un paio di foto del Big ben, di Elton John, una cartina dell’Europa (perché?) e una bandiera britannica. Io comunque vedo tutto giallo. Penso a Van Gogh, che vedeva tutto giallo. Van Gogh non stava bene per niente. Io non so, non importa. Forse dovrei parlare con Van Gogh. La gente è seduta fuori e guaita in anglosassone. Quando ero in Inghilterra mi stavano molto più simpatici. Ho un ventilatore puntato addosso. Il sudore mi dice: questa non me la dovevi fare. Fa niente, comunque. E infatti fa proprio niente. Solo un soffio di aria sul viso che contrasto inarcando il sopracciglio. Qualcosa non va, ho il ginocchio sinistro bagno. Chino lo sguardo e osservo il travaso di birra dal boccale nella mia mano all’arto inferiore. Cazzo. Mi riassetto, appoggio il bicchiere, tiro su col naso, lascio perdere il sopracciglio e guardo avanti. Una bella inglesina siede nel tavolo davanti a me. Ero così impegnato nel compiacere me stesso che me la sono persa. Ha i capelli chiari e ribelli, gli occhi veloci, le mani di fata. Mi pare di vedere il suo delicato odore di femmina defilarsi dal collo e avvolgermi a ritmo del Bolero di Ravel. Una gonnella floreale che immagino ma non vedo perché sotto il tavolo luccicano solamente due gambe innocenti coronate da unghie smaltate di verde. Bello il verde. Preferisco il rosso, ma può andare anche il verde. Non c’è niente di verde in quest’isola. Tutto bruciato dal sole. Guarda qui, guarda che bell’esemplare di maschio italico (insomma) fuggito, sudato, sporco, sgobbato. Concedimi la tua fantasia, non fosse altro che per buttare un ceppo nel fuoco del mio ego reazionario.
Io la guardo. Lei non mi guarda. Ha uno sguardo repentino al cambiamento e due occhi che flippano ovunque, ma da queste parti non passa nessuno.
Un inglese ubriaco che avevo già catalogato come molesto al momento di entrare nel pub mi si fa incontro, mi guarda, mi sorride, poi si volta e pare intenzionato ad andare a rompere i coglioni altrove. Me la sono scampata bella, dico. Macché. Eccolo ritornare alla sua intenzione iniziale. Sorride ancora e penso vorrebbe essere ricambiato. Me ne guardo bene. Ma non ottengo il risultato sperato. Di dove are you from, my friend?
Sono finito, cazzo, finito.
– Como dice in italian? Wait, wait, don’t say it, so io: leccare la fia. My friend? Vero? Vero? – E giù grasse risate.
Tre cose mi irritano in questo momento. La prima è che questo ubriacone di Sheffield tenti di parlare in italiano, una lingua a suo dire molto semplice, quasi come quelle femmine di Bologna di cui millanta gesta erotiche degne di Squaw pelle di luna, a lui ampiamente elargite in un fantomatico periodo di Erasmus. La seconda è che lo faccia sputando e urlando come un forsennato. La terza è che la bimba sua conterranea si è infine decisa a guardare da questa parte. Non guarda me, però, ma quell’essere immondo che mi siede accanto. Lo fissa con occhi schifati che non guizzano più qui e là per il locale, mentre le labbra si fanno anch’esse immobili, corrucciate nel tentativo di rendere palese il suo enorme disprezzo. E dire che la radio suona You never can tell di Chuck Berry, una canzone che potrei schiaffarti in un Cd con i miei dieci pezzi fondamentali, che potrei farti amare quanto io amo lei. Potrei perfino improvvisarmi John Travolta in Pulp fiction. No, questo magari no.
Poi lei se ne va e nel pub rimaniamo io e lui. Lui parla e io lentamente muoio di stanchezza e viltà. Un po’ gli sono grato. È sempre utile avere qualcuno su cui scaricare i propri insuccessi, piccoli o grandi che siano. Trangugio velocemente la birra che mi ha costretto a bere a sue spese, mi alzo e mentre barcollo non mi nascondo un crudele compiacimento per tutto lo schifo che mi attornia in un posto che non è il mio. Fisso per un attimo la cartina dell’Europa appesa al muro alla mia sinistra. Il Mediterraneo è il lavandino d’Europa e Malta, laggiù in fondo, ne è lo scarico. Come le gocce d’acqua a rubinetto chiuso scivolano apatiche verso il gorgo, allo stesso modo scendono a Malta disperati, matti e gente che non si vuole bene. Io non sono disperato e non mi sento nemmeno tanto matto.
Saluto con un gesto quel folle inglese a cui il cervello non trasmette oramai più nulla e guadagno la strada. Mi propongo di cambiare lavoro, testa, vita nel breve volgere di una notte. Ma sono troppo stanco per programmare il tutto. E poi so già che non lo farò.
Però ho in testa quella canzone. Ero ancora bambino quando imparai a cantarmi le ninne nanna da solo.
C’est la vie, say the old folks / It goes to show you never can tell