Non ci sono più le stagioni.
Che una volta ci fossero le stagioni e ora non ci sono più non è solo un modo di dire. È la verità, lo constatiamo da qualche anno. Anzi, da qualche lustro.
Apro la finestra, siamo in luglio, dovrebbe esserci un sole caldo, fiori un tantino sofferenti per le alte temperature, gente reduce dalla vacanza al mare che sfoggia tintarella da extracomunitario.
Invece piove, fa fresco, i fiumi straripano e i fiori soffrono, sì, ma per l’eccesso di acqua. Quanto agli abbronzati, oddio… qui sembrano tutti parenti di Dracula, pallidi da paura e con la muffa addosso.
Quel tizio allampanato che sta passando qui sotto fa il coraggioso. Ha tentato di indossare un pantalone corto e una canottiera, perché giustamente il calendario così gli ha suggerito. Ma il termometro di questi tempi non va d’accordo con il calendario, così lui è uscito di casa vestito leggero e ora sta tremando sotto la pioggia. Però, chissà perché, l’ombrello ce l’ha e lo ha pure aperto. Forse ha sangue anglosassone nelle vene. Si sa che gli inglesi non escono mai senza l’ombrello. Ce l’hanno nel DNA, l’ombrello. E se non ce l’hanno glielo mettono nel corredo da bebè al momento della nascita, come omaggio da parte del reparto di maternità e incoraggiamento alla vita.
Che l’uomo in questione sia del nord poi non ci piove. Si fa per dire. La pelle bianca sa di anemia da carenza solare. Ce l’hanno quasi tutti, qui al nord, dove il sole se compare fa sentire tutti strani.
L’uomo si bagna anche sotto l’ombrello, trema visibilmente. Ai piedi sandali leggeri e piedi zuppi. Si prepara a un’umida attesa alla fermata dell’autobus, il quale però pietosamente arriva in due minuti e se lo porta via. Chissà dove.
Non ci sono più le stagioni di una volta.
A scuola ci insegnavano periodi ben precisi: primavera, estate, autunno e inverno. Ogni stagione arrivava in un giorno stabilito e non si discuteva. A san Benedetto, in marzo, la rondine era sotto il tetto e la primavera diffondeva rondini e fiori. Sole tiepido, vento fresco e birichino, giornate un po’ più lunghe, tempo bizzoso, ma temperature miti.
Ho detto che siamo in luglio, quindi la primavera è passata, dice il calendario, finito il suo turno si è fatta da parte per lasciare il posto all’estate.
Ah, sì? È passata senza salutare, allora, di fretta come questo mondo che non si ferma mai e ha preferito svoltare l’angolo e sparire. Io non l’ho vista.
Nemmeno il mio roseto, là nell’aiuola, l’ha vista. Sono spuntate controvoglia le foglie, ma le rose, che dovevano comparire in maggio, si sono ritirate su stesse e si rifiutano di uscire. Almeno fino a che qualcuno non riporti loro un maggio affannato e pentito.
Ma guarda come piove.
Questo non è un allegro temporale estivo. Questo è il diluvio autunnale che si portò via Noè e la sua arca. Perché di certo era autunno, quando successe.
Un gattino annaffiato, come diceva una canzone, cerca rifugio sotto il mio roseto spoglio di fiori. Noè deve esserselo dimenticato. Miagola impertinente il suo diritto a un posto asciutto. È così piccolo che non sa di certo che in questa stagione dovrebbe trascorrere il suo tempo disteso pigro al sole, aspettando con un occhio chiuso e uno aperto che una lucertola esca a scaldarsi il sangue per acciuffarla e staccarle la coda. Cose che succedono in estate, ma il micio ancora non lo sa, perché questa dovrebbe essere la sua prima estate ed è una estate di pioggia e freddo e le lucertole si guardano bene dal mettere fuori muso e coda. Forse lui è convinto che tutti i giorni delle sue sette vite saranno così umidi.
Non mi sembra giusto.
Passo un panno sul vetro della finestra per asciugare le lacrime di questo cielo così triste. Poi decido che il gattino ha diritto a un po’ di calore. Del resto non ho ancora riposto nell’armadio la coperta del mio letto. Sarà un surrogato d’estate, un caldo malato, ma se distesi sul letto sfogliamo un libro sui Caraibi, caro micio, possiamo illuderci un po’ e sognare il sole vero.
Richiudo la finestra e vado a prendermi il gattino. Insieme aspetteremo l’estate.