E divagar m’è dolce in questo mare…Agitato
Ama svagarsi e divagar, Nader Ghazvinizadeh, ma col suo “I Cosmonauti” ci mostra che sulla scrittura gli restano alcuni punti fissi, e tanta irrequietezza.
Ho sentito il nome di Nader Ghazvinizadeh la volta, ormai mesi fa, che mi sono persa la presentazione del suo “Cosmonauti” (Pendragon), in cui si è messo alla prova con la prosa dopo un trascorso di versi. Ho letto “I Cosmonauti” e numerose sono le immagini che mi hanno colpito. Credo che alla base ci sia un comune immaginario poetico e simbolico. A tratti decadente, morente, a volte asfittico, eppure sempre pregno di storie. Che l’autore si ostina a cavare quasi come un dentista fa con un dente che non ne vuol sapere di lasciarsi estrarre. Ovviamente, per prima cosa, chiedo a Nader il perché di questo passaggio alla prosa.
“La mia poesia non mi soddisfa più, rischia di creare di me un personaggio. Non sono all’altezza di decidere l’argomento che tratteranno i miei versi: sono variazioni su di un tema sottointeso. Saper scrivere in versi mi ha portato alla mia prosa: simile a una nenia con un fulmine alla fine. Anche in prosa divago, infatti credo che presto mi verrà a noia anche la struttura del racconto. Ultimamente ho scritto tre racconti, avevo poco tempo per scriverli e ho avuto l’impressione di avere esaurito la mia vena, ho proprio faticato.”
Mi interessa il rapporto conflittuale del giovane con la parola scritta, la smania di scrivere che lo porta a divagare e l’eccessiva criticità verso quanto prodotto. Gli chiedo qualcosa sulla sua formazione letteraria.
“Vengo da una famiglia per la quale la cultura è un tratto distintivo della nostra antica e perduta nobiltà. Ho fatto il liceo classico. Mi piacciono i libri piccoli tenuti in mani grandi. Mi agita comprare un libro nuovo, dispongo i miei libri volutamente a caso negli scaffali: per non trovarli e divagare nella ricerca. E’ una bella cosa stare da un libraio, poi uscire con nulla di nuovo. Per me la letteratura è Pavese che traduce Melville.”
L’irrequietezza e la giovane età predispongono Nader ad essere rinchiuso in due categorie stereotipate. Prevedo già che all’autore staranno strette come le maglie di quando eravamo bambini. Sono l’etichetta del “Giovane autore” e quella della “Seconda generazione”. Gli chiedo come ci si rapporta.
“Quando ero un giovane poeta e vincevo i premi mi annoiavo perché non era cambiato nulla da prima, non sentivo di aver conquistato qualcosa. Anche pubblicare i primi libri è stata una soddisfazione ipotetica. Ora ho trentanove anni e il mondo della letteratura sa fare a meno del mio nome da tempo. Mi chiamano ai convegni sulle seconde generazioni, al contempo mi chiamano ai convegni su Bologna. Io vado ai convegni e dico tutto quello che so.”
Passiamo ai temi che tratta. Nei Cosmonauti si parla in maniera ricorrente di invisibilità, evanescenza, sparizioni. E c’è l’idea di sparire nello spazio urbano, in un anonimato contrapposto alla fama invasiva.
“La forma della città può essere antropomorfa oppure astratta. Abitare non è vivere, come spiega lo schizofrenico nel primo racconto. Anche nascere non è esistere, come spiega Giorgio Momentè. Bisogna nascere, scomparire, riapparire, per vivere. Per un narratore come Giorgio essere un personaggio delle narrazioni degli altri significa sentirsi compiuto. Poi ci sarà il passo successivo: sopravvivere quando finisce la narrazione.
Colgo l’occasione per soffermarmi sul personaggio del prete e chiedere a Nader che rapporto ha con la sfera spirituale.
“Ho paura, dunque la mia spiritualità si presenta travestita da altro. Si traveste da contemplazione quando sono seduto nella piazza di Lipso, da fuga concentrica e lenitiva, quando guido lungo il fiume. A volte tutto nasce dall’azione: il dai e dai eleva dalla realtà. Eppure è il senso del reale a far cogliere l’attimo, a elevare. E sulle biciclette verso casa, la vita ci sfiorò, ma il Re del mondo, ci tiene crocifisso il cuore. Un tempo avevo accesso ai miei pensieri rarefatti camminando, ovunque e per ore. Una astuta nevrosi, però, non mi permette, da più di dieci anni, di camminare per le strade.
Piano, piano inizia ad emergere la personalità di questo autore che non vuol esser visto né definito come personaggio. Lo immagino camminare, e non mi sorprende che i passi abbiano facilitato le sue riflessioni: è una pratica nota fino all’estremo oriente, può essere una maniera semplice di meditare, a nutrire lo spirito. Ma nel suo mondo di carta, quale è la quotidianità dei Cosmonauti nelle Metropoli, per citare due sue opere?
Ho coltivato la mia diversità osservando gli altri tradire
Torno al fronte stilistico e chiedo a Nader come giustifichi la cura certosina per i dettagli, la voglia che troviamo nei suoi personaggi di osservare amici, paesi e paesaggi, condomini, persone che cantano e che applaudono. Si nasconde forse, dietro questo occhio onnipresente, un amore per l’arte visiva, per il cinema?
“Io non amo il cinema, sono tiepido con i classici. Amo i documentari, in Italia sono bravi, da sempre, a girarli: il neorealismo sono documentari melodrammatici. Il mio formato sarebbe il cortometraggio, ne ho anche sceneggiati due: uno, Drobgnac, lo hanno anche girato. Amo le maratone cinematografiche e i cineforum, sono insegnante di cinema e sono laureato in cinema, ma non lo amo. Mi piace, invece, l’etnologia.”
E siccome i personaggi dei suoi scritti si spostano, in preda ad un’irrequietezza che scopro appartenere anche al loro creatore, chiedo se crescere e poi allontanarsi è tradimento. Penso al buon Verga e al suo ‘Ntoni, alla sua partenza, tanto voluta quanto temuta.
“Da piccoli si è uguali a quando si è grandi, io da piccolo ho coltivato la mia diversità osservando gli altri tradire. E’ interessante l’impermeabilità alla morale, l’indipendenza dai precetti: è una libertà che porta solitudine. Ho scritto un racconto, Carpe Diem, sulla perdita dell’innocenza, su di un buono che fa le prove per essere cattivo. Quando il male non è più un tabù si diventa grandi, si diventa grandi quando si diventa gli altri. Nessuno che è felice vuole andarsene, eppure l’incoerenza geografica, trasferire il proprio corpo e i propri ricordi sono istinti. Certamente si cresce andandosene, ma si cresce per regredire, per tornare.”
Ed eccoci di nuovo all’invisibilità e alle ricomparse, temi centrali attorno a cui ruota l’opera di Ghazvinizadeh. Scelgo per questo di approfondire ancora di più l’aspetto, perché a giocare a nascondino sono anche i luoghi che Nader descrive. Luoghi sfumati, accennati, sospesi fra realtà e sogno sbiadito. Via del Salto, Norfolk.
“E’ questo il contraltare del non spostarsi, viaggiare per tornare: vedere gli omologhi di sé vivere come se nulla fosse, come se al mondo ci fosse soltanto quel luogo. Omologhi inconsapevoli di chi li osserva di passaggio. I posti che decido di descrivere esistono anche ora, mentre scrivo: questo mi agita, mi inquieta. Mi interessa trasferirmi in un posto per un tempo stabilito e scriverne, ma anche mi interessa scrivere di un luogo senza saperne nulla e poi, forse, in un futuro, vederlo.”
La mia curiosità non è sazia, ma il tempo e lo spazio disponibili sono esauriti. Ringrazio Nader e resto pensosa a riflettere, questa volta senza bisogno di farlo camminando.