Futuro made in Italy
Venezia, anno 2016. L’americano che ci siede accanto al tavolo del bar ci racconta di essere un otorinolaringoiatra di New York. Viaggia con la moglie, per entrambi è la prima vacanza italiana. L’Italia è tutta una sorpresa ammette mentre fa girare il cucchiaino nella tazza del caffè, Venezia é sorprendentemente pulita.. altro che New York!. E per descrivere il livello d’igiene della città di Eddie Murphy e Woody Allen usa la parola filthy, nientemeno che sudicio, lercio, schifoso. Mi guardo intorno con un pizzico di titubanza: la perla dell’Adriatico, com’era conosciuta al tempo dei Dogi, non è mai stata in testa alle classifiche per pulizia a causa di acqua alta, ratti e quant’altro. Forse la devo rivalutare, penso mentre pago il conto.
Quando facciamo la valigia, noi, immigrati di generazione 2.0, è perché la misura è colma e di pazienza non ce n’è più. Il futuro è una nuvola nera e francamente ne abbiamo le tasche piene dei sei troppo giovane/sei troppo vecchio/non hai esperienza/ne hai fin troppa. Partiamo con molte meno certezze di quante ce ne lasciamo dietro ma con la sensazione di esser arrivati al culmine della sopportazione e quindi con la certezza di non voler tornare mai più. Poi arriva l’esperienza, e passati gli anni ci si ripensa su.
Tornata a casa dopo un decennio di vagabondaggi (per una breve vacanza, sia ben chiaro) la percezione a prevalere è quella di essere una turista più che un’espatriata. Ma poco male, ripulita dagli antichi rancori mi concedo il lusso di guardare al mio Paese con un occhio forse più obiettivo. Ciò che scopro è – come direbbero gli inglesi – refreshing, tonificante. Anni di terrorismo mediatico ci hanno fatto dimenticare ciò che di valido e buono ancora si preserva mettendo in gioco un bene troppo prezioso: l’orgoglio delle proprie origini e, in ultima istanza, la stima di ciò che si è.
Checché se ne dica, si è un popolo di gente flessibile. Non lo dico solo in elogio del capotreno che non mi multa per un biglietto non timbrato causa malfunzionamento dell’unica obliteratrice presente in stazione (ci aggiunga data e ora a penna signorina, va bene così) o del marinaio che mi fa spazio a bordo del vaporetto sprovvista di biglietto perché nei paraggi non c’è né un’edicola né una rivendita ACTV (non si preoccupi, il biglietto lo faccia a Murano). Fallo a Londra o a Stoccolma e a destinazione, sicuro, ci arrivi a piedi. Ma lo dico in elogio della gente comune con una vita comune che pur di arrivare a fine mese non ha paura di reinventarsi, munita di quella stessa flessibilità dimostrata al mondo dagli italiani all’estero.
Nel suo articolo uscito su Internazionale venerdì scorso (il venerdì 17 in cui abbiamo battuto la Svezia 1-0 agli Europei grazie al gol di Eder) Marco Mancassola parla degli italiani a Londra come di una moltitudine alla ricerca di un sogno simil-americano, dilaniati da un rapporto bipolare con la capitale inglese. Scrive di quelli di successo e quelli che si perdono, e i tanti che restano in bilico a metà. Ma anche per restare in bilico ci vuole una certa abilità, dico io: la flessibilità appunto.
Stare a Londra è come stare in piedi su una barca: ad esser troppo rigidi tosto o tardi ci si rovescia in acqua. E poi l’ospitalità. In anni di vita raminga ben pochi baristi, commessi o gestori di pub e ristoranti si sono fermati a scambiare due parole sul tempo, la cronaca od una qualsivoglia banalità. Si corre ché il tempo è denaro, e ciò che conta non è avere un’opinione ma una carta (preferibilmente di credito). In dieci giorni di soggiorno nel Belpaese le conversazioni più avvincenti sono nate in panificio, al supermercato o per strada. Sarà perché la gente é circondata da bellezza, mi dico, o perché qui all’ora di pranzo si chiudono ancora i negozi e un piatto di pasta ce lo si mangia volentieri in trattoria o a casa, sono sicura senza particolari ripercussioni sulla produttività.
Qui si fa parte di una comunità, e si è vivi solo se si comunica e si scambia. Dino ci offre un tour personalizzato della casa di Carlo Goldoni per diletto e gentilezza, senza chiedere mance a fine visita che conclude con una vigorosa stretta di mano e un “tornate presto”. E’ il sorvegliante del palazzo e lo stipendio lo percepisce anche senza dispensare favori. Giovanni aiuta a tempo perso Nico, il famoso gelataio delle Zattere. Seppur abbia una faccia da lupo di mare, con l’occhio azzurro quanto il cielo di Venezia nei mattini d’estate, ha fatto il cuoco all’estero per quarant’anni. “Ho inventato ricette che hanno raggiunto anche l’America” e ce ne dà qualcuna da portare con noi nel Nord Europa. Il numero di interventi ai quali ha dovuto sottostare per via di un cancro cambia di conversazione in conversazione, ma l’energia è uguale e la voglia di comunicare pure. “Quando mi sento male vado fuori a respirare l’aria del mare che sale dalla laguna. E vengo qui a parlare con la gente, ovviamente”.
Ripenso alle sue parole mentre riverso sul marciapiede di una strada di Londra il pranzo di poche ore prima a causa di un’intossicazione alimentare. Tutti passano e guardano ma nessuno aiuta. Sarà la big city life, la vita della grande città cantata da Mattafix, ma a me pare che ci si sia parecchio disumanizzati e in momenti come questi la città non è niente altro che una belva che ti salta addosso.
Francesco é stato l’ultimo fotografo di Venezia a sviluppare foto su pellicola. Ha smesso un paio di anni fa perché i ricavi erano di gran lunga inferiori ai costi ed ora il suo negozio di fotografia adiacente a Campo San Polo sbarca il lunario stampando esclusivamente da digitale e vendendo aste per selfie. “Venezia non è una città internazionale. E’ una città per turisti”. Dice che si stenta a campare, come confermano in molti, anzi, quasi tutti. Che per riprendersi l’Italia ci metterà parecchio lo capii quando, durante una discussione con un assessore comunale sui pro e i contro dell’inclusione nell’Unione Europea, ad un mio encomio delle socialdemocrazie scandinave dalle quali ingenuamente dissi “c’è parecchio da imparare”, mi rispose che non siamo alti e biondi come gli svedesi. Ma ora che la Svezia l’ho vista da vicino posso assicurare che, anche se non siamo vichinghi, molto da offrire c’è. Si potrebbe partire dal rieducarsi ad immaginare un futuro non altrove ma qui, un futuro che – a dirlo oggi sembra un’eresia- sia sorprendentemente made in Italy.