Giovanni, amore mio
Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita..
Un biglietto in bianco e nero, grafia semplice, quattro righe scure su foglio bianco. Poche parole, piene di amore, tenerezza, semplicità. Piene di una vita che va oltre la morte, come se l’attentatuni, il tritolo, le lamiere accartocciate, fossero stati poco più che un incubo di un’era lontana.
Guardatelo. Poi guardate i video e le immagini dei mafiosi in carcere o nella aule dei tribunali, per le decine di processi in cui collezionano ergastoli. Immagini a colori, figure animate, persone vive. Apparentemente.
Oppure riprendete alcuni articoli di cronaca di qualche tempo fa, quando giravano sul web le riprese delle conversazioni intercettate in carcere tra Totò Riina e un altro detenuto. La miseria di un cortile che diventa l’ora d’aria, dove ogni dettaglio scenico è tugurio, odio, claustrofobia, bruttura. Vita che in realtà non è vita, solo viscere di un’esistenza senza più un cielo libero neppure da guardare, passi trascinati, di chi è corroso dentro, preso da propositi di morte, da parole sulla “fine du’ tunnu” da far fare a un altro magistrato, Nino Di Matteo. Mentre intanto la fine del tonno, vivo solo biologicamente, l’ha fatta lui, il famigerato capo dei capi.
Cosa c’entra l’uomo del cortile con quel biglietto? Per chi non sapesse, assolutamente nulla. Noi sappiamo invece che un nesso purtroppo c’è. Diretto. Ma ventiquattro anni dopo sappiamo anche che la prospettiva è capovolta, definitivamente. Non ha vinto chi pareva che avesse vinto. Non ha vinto chi ha ucciso.
Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita.
Sarai sempre dentro di me, come io spero di rimanere viva nel tuo cuore.
Francesca
Parole su un biglietto, scritto da una donna che non c’è più ad un uomo che non c’è più. Eppure, se lo poniamo accanto al video del boia che trasuda odio, è l’immagine di un trionfo. Della vita sulla morte. Del Bene sul Male. Dell’Umanità contro la Disumanità.
È stato rinvenuto nella cancelleria del Tribunale di Palermo, dove lavorò Giovanni Falcone, glielo scriveva Francesca Morvillo.
…se lo poniamo accanto al video del boia che trasuda odio, è l’immagine di un trionfo. Della vita sulla morte. Del Bene sul Male
Siamo abituati, in perfetta buona fede, a guardare certe figure in un modo incentrato sulla loro straordinaria valenza simbolica. Come fossero soltanto magistrati, eroi, icone antimafia, vittime di mafia, personaggi che hanno reso migliore questo Paese. Ma tendiamo a dimenticare che prima di tutto questo, sono (erano) esseri umani. Con sentimenti, con una vita privata, con le loro tenerezze, le speranze, i sogni, le piccole debolezze. La voglia magari di una vita normale, lontano dai riflettori, dalle scorte, dalle auto blindate e da quel convitato di pietra, in abito nero, con cui sempre, in ogni momento della loro esistenza, si ritrovavano a fare i conti. Perché sapevano bene che quel conto, prima o poi, qualcuno glielo avrebbe presentato.
Negli ultimi mesi della sua vita Giovanni Falcone, trasferitosi a Roma, amava ogni tanto uscire da solo la sera, senza scorta. Si sentiva più sicuro, lontano dalla Sicilia, e amava fare lunghe passeggiate per sentirsi normale. Un cittadino qualunque. Mi piace pensare che in una di queste lunghe passeggiate, magari tra Piazza Navona e Campo dei Fiori, o seduto sulla scalinata di Trinità dei Monti, leggesse questo biglietto della sua donna e sorridesse sotto i baffi, con quei suoi occhi intelligenti.
Tra nemici tremendi, “menti raffinatissime” e persino presunti amici che pugnalano alle spalle, questo biglietto ci mostra il lato più personale di Giovanni Falcone. Ci rimanda l’immagine non solo del giudice professionale e coraggioso, ma anche quella di un uomo ricco di tenerezza e di umanità.
Quelli della mia generazione, oggi più o meno quarantenni o cinquantenni, nel 1992 avevano l’anima a pezzi, perché sembrava che il destino fosse ineluttabile per questa terra bellissima e disgraziata: il Male aveva vinto. Senza appelli. Sembrava ineluttabile. Nella devastazione, nelle autostrade sventrate, in brandelli di corpi a insanguinare una città attonita, ancora una volta. I brindisi, i sollazzi dei mafiosi, l’allegria sprezzante con cui festeggiavano la morte dell’odiato nemico la sera del 23 maggio 1992, nelle celle dell’Ucciardone, erano il sigillo amaro, l’iconografia della loro vittoria su noialtri. Noi ragazzi, noi sognatori, noi che già dieci anni prima sul luogo della strage Dalla Chiesa, sul muro crivellato dai colpi dei kalashnikov, avevamo letto, scritto da amara mano anonima, che “qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Noi, sempre noi che credevamo in quelle parole lì, così improbabili e inusuali per tanti anni a Palermo da far sembrare folle o stupido chi ancora le pronunciava: giustizia, libertà, amore.
Noi che siamo stati, chi più chi più meno, sul punto di cedere, di pensare che alla fine saremmo andati via tutti o magari saremmo finiti anche noi a far finta di niente, a girarci dall’altro lato, persino a pagare il pizzo, perché “tanto lo fanno tutti, chi minchia te lo fa fare di fare l’eroe?”
se siamo qui, ventitré anni dopo, a rileggere con un sorriso di tenerezza quel biglietto, mentre altri fanno a’ fine di’ surci, dentro una gabbia senza luce e senza speranza, vuol dire che davvero, le loro idee hanno continuato a camminare sulle nostre gambe
Invece no. Quei quattro quintali di tritolo sotto l’autostrada hanno stroncato le vite di Francesca e Giovanni, degli uomini della loro scorta ma se siamo qui, ventitré anni dopo, a rileggere con un sorriso di tenerezza quel biglietto, mentre altri fanno a’ fine di’ surci dentro una gabbia senza luce e senza speranza, vuol dire che davvero le loro idee hanno continuato a camminare sulle nostre gambe.
Vuol dire che loro hanno perso. E che questa terra, che pure irredimibile forse lo è davvero, ha ancora una speranza.
(immagini prese dal web)