Reinventarsi dopo il tradimento
Elvira Vigna in Niente da dire, edito da Gran Via Edizioni, racconta il tradimento nel Brasile della borghesia, quello piatto – ma di una piattezza autentica, che proprio per questa borghese ordinarietà sorprende chi si aspetta invece panorami esotici e piume colorate riproducendo ingenuamente immaginari fallaci proposti dai media europei.
La narrazione avanza attraverso la voce della protagonista, seguendo la linea guida di alcune date fulcro che lei serba in mente con la gelosia perversa con cui si trattengono i ricordi di ogni addio, percorsi e ripercorsi mentalmente infinite volte. Niente da dire non è soltanto la storia di un tradimento ma della ricostruzione di sé dopo il tradimento del partner, in questo caso di Paulo.
“Chi ero io per Paulo?”, se lo chiede spesso, la traduttrice tradita attorno a cui ruota l’intera vicenda. La Vigna analizza una ad una le tappe di elaborazione del fatto: il senso di assurdità, la negazione dei fatti, l’ostinato parlare al duale con un “noi” che sottintende una coppia che non c’è più. E ancora, il vano quanto assurdo tentativo di non somigliare più a se stessa, l’ambivalenza continua nei confronti dell’amante, che al lettore viene presentata semplicemente come “N”, la voglia di vestire come lei, essere come lei, scopare come lei con il fine unico di riconquistare Paulo.
Partendo dal quesito “chi ero io per Paulo?”, la donna giunge a tutt’altra risposta: rinunciando all’approfondimento identitario, preferisce essere chiunque pur che sia qualcuno che Paolo ancora desidera.
Passa con rassegnazione a non esigere più una spiegazione al trascorso:
“Quella mancanza di chiarimenti è una delle cose che non sarebbero state possibili nel mio vecchio io e che nel nuovo, in quello che alla fine ero riuscita a costruire, era possibile. Fragile, nel senso che ammette l’ambiguità, l’incomprensione, il non controllabile, è un io che include la presenza di un Paulo anche lui ambiguo, spesso incomprensibile e certamente non controllabile.”.
Questa rassegnazione però resta teorica, perché soltanto alla fine vedremo la vera rinuncia al controllo della protagonista, l’abbandono totale alla realtà senza bisogno di filtrarla attraverso una forzata razionalità.
Con rassegnazione, la protagonista ammette poi il fallimento nel tentativo di “essere” N:
“Non riuscii a far sì che la sua presenza nel mondo si restringesse fino a coincidere esattamente con il mio modesto corpo, quando infine avremmo occupato lo stesso spazio, io sarei stata lei e lei sarebbe stata me. E lei sarebbe scomparsa.
O forse sarei scomparsa io.”
L’impossibilità di essere N. diventa a sua volta impossibilità di cancellare il tradimento che la coinvolge, di cancellare N. come amante, come presenza nei pensieri e nei ricordi di Paulo.
Allora arriva la disperazione: umanizzare un iPod quasi per fondercisi, appropriarsene penetrandolo con la propria essenza per sottrarre lo spirito di N. che lo possiede in un privatissimo rito animista. Per quanto inquietanti, le scene riportate da Elvira Vigna mantengono sempre una vena ironica che le fa scivolare nel grottesco. Così capita anche di sorridere, leggendo i disperati tentativi di cancellare dal mondo l’esistenza dell’amante.
Ma poi, in fondo, fa capolino una verità nascosta finora: la donna ama ancora Paulo.
Lui, che da traditore pentito non aspetta altro che l’assoluzione, accetta a capo chino di farle leggere le mail che si scambia con N., ed entrambi costruiscono un nido provvisorio.
Se l’escamotage di non dare un nome alla donna antagonista si rivela un trucchetto di cui la Vigna avrebbe potuto fare a meno, a convincere di più è la descrizione puntigliosa della routine ossessiva della protagonista. La quale, spinta da gelosia, controlla le mail del partner, la sottigliezza con cui accenna al calore della sedia del computer che fa presagire la clandestina presenza del partner poco prima davanti a quello stesso schermo, in un gioco di evidenze celate e dissimulate e verità fiutate scavando fra inganni e trabocchetti.
“Io ero vittima di un’ossessione che diventava sempre più forte. Ogni occasione era buona per frugare nel computer di Paulo. In mancanza di nuove mail, cercavo quelle vecchie. Cercavo tracce di file cancellati, indizi di qualsiasi tipo che riconducessero al nome di N.”
In questo gioco di scritture, cancellature e riscritture del proprio io, la donna si ritrova nel paradosso di non aver più nulla da dire, eppure di vomitare parole su parole cercando nelle parole una razionalità residua.
Nulla da dire sono le memorie di una donna ferita e colpevole di molto amore e troppo abbandono, che esiste ma che decide di smettere di esistere.
“Mi sgretolai. Non esistevo più.
Non mi aspettavo che questo potesse succedere. Che io potessi non esistere, che la mia esistenza potesse non essere calcolata dalla persona che più mi conosceva al mondo.”
Eppure è proprio nel momento di massimo abbandono all’inesistenza che una forma nuova di libertà sembra poter germogliare.