Ho perso le parole
I bambini si erano addormentati, dietro, cullati dall’andatura regolare della macchina in statale. Il cielo annuvolato d’improvviso, il vento calato, ma con una sensazione di pioggia imminente. Giacomo guidava, Anna lo osservava, attenta a sembrare distratta, presa da tutt’altro men che da lui. Quella sottile eppure spiattellata indifferenza reciproca sul cui filo sottile camminavano da mesi. O da anni. Non era più tempo neppure di scontri aperti e plateali.
Lui non aveva mai parlato tanto.
Lei invece sì. E quanto lo aveva detestato per questi suoi silenzi. Lei a tentare di spaccare il capello di ogni emozione, a tentare di interpretare e dar forma ad ogni singola cellula del magma che componeva il loro rapporto. E lui, ben più che sintetico e stringato: insopportabilmente telegrafico. Un tempo, quando le cose andavano bene, Giacomo la guardava, sorrideva con quegli occhi grandi e neri che facevano innamorare, e Anna sentiva che l’empatia era totale, a prescindere dal tipo di comunicazione. Non serviva che lui desse troppe conferme verbali. Per tirargli fuori qualche frase o addirittura un discorso articolato, doveva pungolarlo e fargli domande insistenti. Meglio se precise, di quelle che mettono spalle al muro e non consentono di svicolare. Altrimenti lui si chiudeva, glissava, come se fosse scettico sulla possibilità che le parole hanno di dare una forma che almeno si avvicinasse a ciò che gli passava per la testa e per il cuore.
Lui non aveva mai parlato tanto. Lei invece sì. E quanto lo aveva detestato per questi suoi silenzi
Eppure con le altre parlava, lo stronzo! Quando erano in società, Anna lo vedeva sciolto, quasi loquace; per non parlare delle mail a colleghe o amiche virtuali. Lo stronzo, quando voleva sapeva comunicare eccome. E le parole, perse con lei, le ritrovava con le altre!
E invece ora la solita maschera muta e inespressiva, eccolo là. Canticchia se la radio passa qualche canzone delle sue preferite. Ma anche quello a bassa voce, quasi che ormai fosse stabilito da una legge non scritta che loro due dovessero comportarsi da invisibili l’un l’altra. Coi bambini e per i bambini parlavano, sì, certo; anche quel giorno, quel breve viaggio, era una promessa fatta ai figli da tempo, portarli in quel parco in collina.
Una apparente normalità, una quotidianità cui i bambini fingevano di credere; o che forse, dopo qualche domanda iniziale, avevano imparato ad accettare come il minore dei mali. In fondo loro non potevano lamentarsi, rispetto a tanti compagni di classe che vedevano il papà solo ogni due settimane, o altri che avevano le madri che urlavano insulti ai padri al telefono, per i soldi in ritardo anche questo mese o per quella puttana che continua a sbavare ad ogni cazzata che scrivi su Facebook.
A lei però quel silenzio toccava fili profondi, la rendeva insofferente. Lei che le emozioni, di qualunque natura fossero, non aveva mai sapute trattenerle, lei che doveva trovare le parole giuste per esprimere tutto, per tirarlo fuori, descriverlo, condividerlo. Anna non ce la faceva più, era sul punto di esplodere. Cercò di distrarsi, di concentrarsi sui boschi al di là della strada, sul grigio del cielo carico di pioggia, insieme al verde del paesaggio. Percorrevano una statale che attraversava una riserva naturale. Ricordava in qualche modo la Romantisch Strasse tedesca di quel loro viaggio da fidanzati, molti anni prima: una strada romantica, in fondo.
In prossimità di una curva, Anna stava per dare un pugno al vetro del cruscotto. Avrebbe voluto urlare, spaccare quella coltre di silenzio che soffocava le loro vite, perdere d’improvviso il controllo che aveva avuto per tutto quel tempo. Riuscì a frenarsi a stento. Forse diventò rossa, forse trapelò un fremito di tempesta emotiva e lui dovette percepire qualcosa, malgrado apparentemente non avesse neppure accennato a voltare lo sguardo. Poi la radio passò la canzone che entrambi amavano.
Ho perso le parole eppure ce le avevo qua un attimo fa,
dovevo dire cose, cose che sai, che ti dovevo, che ti dovrei…
Ho perso le parole, del Liga. Era la canzone del loro primo bacio, in quella vecchia Fiat Uno di tanti anni prima. Ed era la canzone con cui, quando ancora erano felici, lei lo prendeva sempre in giro per la sua scarsa loquacità.
Anna sentì una fitta allo stomaco. Lo guardava, aspettava una frase, un sorriso, un gesto, un urlo, un abbraccio.
Niente.
Tornò a guardare il finestrino, la collina che dolce diradava verso la pianura, là in fondo. Non riusciva a credere che quell’uomo inespressivo, ostentatamente anaffettivo e indifferente, fosse suo marito. L’uomo di cui si era perdutamente innamorata e con cui aveva messo al mondo due splendidi figli. Chi era lui adesso, cosa era diventato? E lei? E del loro matrimonio cosa restava? Lo odiò profondamente. Di un odio che forse non aveva mai provato così intensamente. No, non perché lui non la amasse più: questo poteva accadere, fa male ma accade. Basta guardarsi intorno, provare a contare quante sono le coppie che resistono nel tempo. Lo odiava perché neanche in questo momento Giacomo riusciva a comunicare in alcun modo, a parlare, a trovare le parole giuste e tirar fuori cosa provava, cosa pensava. Ancora una volta, sarebbe toccato a lei il compito per cui non aveva vinto nessun concorso e superato nessun esame, eppure sembrava appartenerle di diritto: esprimere le emozioni tra loro, renderle per quanto possibile intellegibili.
Ho perso le parole e vorrei che ti bastasse solo quello che ho,
io mi farò capire anche da te, se ascolti ben se ascolti un po’…
Invece successe qualcosa d’imprevisto. Anna si voltò e si accorse che Giacomo piangeva. Non lo aveva mai visto piangere in quindici anni che lo conosceva. Mai. E ora piangeva in un crescendo inarrestabile, silenziosamente, come per non farsi notare. Ma a dirotto.
Dunque, Giacomo aveva perso le parole e trovato le lacrime. E lei ora… che fare? Si sentiva paralizzata. Lei, che parlava sempre e in ogni situazione aveva sempre una domanda da fare o una cosa da dire, adesso era bloccata. Muta.
Voleva abbracciarlo.
Voleva prendere un fazzoletto, passarglielo delicatamente sul viso, asciugarlo.
Voleva dirgli che sì, in fondo, comunque fosse andata e malgrado tutto, lei gli voleva un bene dell’anima e gliene avrebbe voluto sempre.
Voleva dargli un bacio sulla guancia, rassicurante, lungo e accogliente come il primo bacio della madre al proprio bambino.
Voleva dirgli qualunque merda io ti abbia lanciato addosso, non crederci, non era merda, era solo che non sapevo come difendermi.
Voleva cantargli in faccia, a squarciagola, quella canzone.
…mi posso far capire anche da te, se ascolti bene se ascolti un po’
Credi, credici un po’ metti insieme un cuore e prova a sentire…
Voleva dire, mostrare il tumulto dentro, prendere tutte le emozioni intense di quei momenti, farne un piccola confezione colorata e porgerla a lui, con tutto lo slancio di cui fosse capace.
…Voleva dirgli qualunque merda io ti abbia lanciato addosso, non crederci, non era merda, era solo che non sapevo come difendermi
E invece rimase muta e bloccata, totalmente priva di qualunque espressione. Finì la canzone, la radio passò la pubblicità, lui smise di piangere, si asciugò da solo, si ricompose e proseguì a guidare. Le prime parole pronunciate quel tardo pomeriggio, in quello che restava di quella famiglia, furono del figlio grande, ridestandosi dal sonno: siamo arrivati a casa?
Immagini di Erika Sichera o tratte dal web