Le mamme che non pensiamo
Mamme: tre cose – e casi – su cui riflettere che vogliono lasciar spazio per pensare a tutte le altre cose – e casi – omessi, sempre in merito alla maternità e al suo valore, oggi.
Domenica era la festa della mamma e le vie del centro – ogni centro, sì, il centro di ogni conglomerato urbano – ci hanno bombardato di proposte, seguendo ognuno la propria vocazione: le librerie con i loro manuali sulle nuove mamme e quelle d’antan, sulle wonder women over trenta e su quelle anarchiche, le pasticcerie con deliziose cupcakes rosa confetto, i negozi con accessori adatti più a mamme-per-amica che a mamme all’antica – ma l’importante è che faccia rima e poi d’altronde se lo shopping lo fa la figlia si presuppone che il regalo finirà per piacere in primis a lei, no?
L’indomani, l’undici maggio, a ciel sereno e dopo il dì di festa, ecco che compare sul web l’articolo spiazzante di Linkiesta, che analizza una tematica che di legato alla maternità ha molto: è la piaga delle badanti, perlopiù provenienti dall’Europa dell’Est che, mosse da qualcosa che si piazza a metà fra spirito di emancipazione e disperato ma deciso tentativo di contribuire economicamente alle spese familiari, partono per l’Italia alla ricerca di un lavoro. Sono donne con alti titoli universitari e professionali, ma in Italia si ritrovano ad essere badanti di anziani ed anziane e, spesso, ad invecchiare anche loro a velocità inaudita, lasciando che la vitalità di quell’essere madri diventi un ricordo lontano, sfocato, un’immagine sbiadita, uno sprint inutile ora che ci si deve muovere solo ai lenti ritmi di carrozzine per invalidi e non più di quelle, ben più allegre, che appartengono ai bimbi prima che imparino l’arte complessa del camminare.
In Italia abbiamo considerato la festa della mamma, dimenticando che proprio a metà fra madre e figlio, in terre poco distanti da noi, s’è piazzata silenziosa la morte
“Sindrome italiana” la chiamano, e il suo risvolto della medaglia sono gli orfani bianchi, ovvero quei bimbi senza mamma che, come seconda eco di quella morte lenta degli anziani assistiti dalle madri, sprofondano in depressioni senza rimedio, scivolando spesso fino al suicidio. Effetto domino che copre tre generazioni ma, se per la più antica il declino è fisiologico e comprensibile, per la seconda è anomalia e per la più fresca è dramma che fa accapponare la pelle. C’è poco da aggiungere all’accurata analisi che ne fa Linkiesta, ma quello che si intende fare qui è tornare con fare critico sulla leggerezza con cui in Italia abbiamo considerato la festa della mamma, dimenticando che proprio a metà fra madre e figlio, in terre poco distanti da noi, s’è piazzata silenziosa la morte. Morte strettamente legata al venir meno di questo legame inscindibile, imprescindibile in tenera età: mamme che vanno via spesso senza dare spiegazioni o dettagli sulla propria partenza o sulle tempistiche di ritorno, figli che non capiscono, non chiedono, tacciono sofferenti fino a scomparire.
E noi, in Italia? Giulivi a comprare dolci e fiori. A sorridere con superiorità a quelle badanti che reputiamo troppo spesso non istruite, non all’altezza. Eppure basta fermarcisi a parlare per capire che nel loro Paese sono linguiste, insegnanti universitarie, filosofe, avvocati e che amano leggere e che conoscono i pilastri culturali della loro nazione, forti del loro bagaglio di sapere, e ci meravigliamo anche che si possa citare Cioran e poi sentirsi piccoli piccoli perché in confronto a loro non se ne sa davvero nulla.
Noi qui in Italia in data dieci maggio abbiamo al massimo pensato di affrontare le tematica delle diverse maniere di essere madri, una fra tante quella di costituire una famiglia omogenitoriale. Se ne è parlato a Padova a Librati, la Libreria delle donne, di recente apertura. E un’iniziativa del genere, in una città che va fiera – l’ha eletto! – del suo sindaco leghista, merita tanto di cappello. Anche qui, però, rifletto sulle notizie che ci arrivano dall’estero e che chiamano al confronto ed alla riflessione. In America, ad esempio, si denota negli ultimi mesi la chiusura di bar e locali per lesbiche. Ci si chiede il perché, si analizzano le cause passando per l’idea di gentrificazione, ma io mi chiedo se non ci sia anche qualcosa di positivo, in tutto ciò. Qualcosa che indichi il superamento della ghettizzazione, mista sì a quel triste mutamento sociale che porta ad incontrarsi sempre meno, mista anche al fatto che le donne più degli uomini apprezzano l’intimità di una casa rispetto all’incontro-acchiappo al pub. Il mio è un ottimismo facile, ma non vedo come negativa in assoluto la notizia che mi parla della chiusura di locali per lesbiche in uno stato dove le suddette lesbiche sono libere di esprimere il loro amore apertamente. Meglio, forse, avere decine e decine di recinti-pub in cui esprimere apertamente il proprio amore e poi però prepararsi a manifestare in piazza per ottenere un matrimonio che le autorità non vorranno autorizzare? A quoi bon?
Anche queste riflessioni mi hanno accompagnata nei giorni immediatamente successivi alla festa delle mamme.
A concludere queste elucubrazioni a posteriori, un’istantanea: una bicicletta con un ometto e due bimbi di sembianze indiane che sfreccia sulla riviera padovana e si sofferma davanti all’osservatorio di Galileo, cerca di farsi un autoscatto fino a che non mi propongo io stessa di scattare una fotografia a quella bici popolatissima. Il padre sorride e abbraccia i bimbi poi riacchiappa il manubrio e torna a casa dicendo che è il momento di andare a casa e cucinare con mamma.
Quella preposizione fa la differenza: con mamma, insieme a lei.
Ecco: cambiano le mamme, cambia la maternità, ma cambia con esse anche la famiglia di cui queste donne sono parte.
Ed il mio augurio – ritardatario solo in base ad una convenzione arbitraria – è che le famiglie cambino nella consapevolezza costante della pluralità, in ogni senso. Con il pensiero costante che ci sono mamme che vanno lontane e chissà se torneranno mentre i loro bimbi come Argo con Ulisse le aspettano fedeli ma sempre più grigi. Che ci sono mamme che sposano mamme e che forse questa può essere una normalità e non una rarità da tenere a sé, da parte. Che ci sono famiglie italiane e portatrici di culture altre dove i ruoli sono suddivisi in maniera equa e che probabilmente quelli che devono fare qualcosa di vero per restituire alle mamme la loro importanza di madri siamo noi, noi che compriamo torte e fiori perché i negozi ce li propinano; noi, i più mammoni di tutti, quelli che proprio per essere i più ancorati alla tradizione finiscono per rinviare sempre quel passo avanti che potrebbe essere il passo definitivo verso una nuova maniera di essere madri, di essere figli, di essere famiglia in una sorta di reciproco scambio win to win in cui nessuno ci rimette, nessuno si subordina, nessuno resta tagliato fuori.
Auguri.