Monologo del dittatore ovvero il sogno dell’allenatore di calcio (Parte Prima)
Ritmo, ritmo, ci vuole ritmo, da noi lo spettacolo è intrattenimento, ritmo, ritmo. Fuori da qui la gente ha l’infermo, noi offriamo un paradiso, il Paradiso. Ritmo, ritmo, non c’è tempo per pensare, la riflessione è rivoluzione, il pensare è terrorismo. Ritmo, ritmo. Così ogni giorno.
Buonasera:
Allenavo la squadra di calcio più forte della città. Mischiavo le regole per sbaragliare difese, sconquassando pali e bucando reti. Il totale del campo era nostro. Disciplinavo il caos per sorprendere, iniettavo paura e governavo la vittoria. Bava tra le labbra, pelle strizzata dai nervi tra la fronte, ecco il gioco che incanta, che piega il nemico nell’umile uscita verso il tunnel. La sconfitta, quella che dispera gli umani, costretti a pregare affinché il domani sia diverso dall’oggi, ma sapendo che i fischi non lasceranno dormire la notte.
Io Arrigo, non sono un’idiota. Io ho governato il destino del tempo, io ho giocato con i minuti senza contare domeniche, ma solo vittorie.
Eccomi allora. Zitt… ferm… in piedi. Girati tesoro. Basta! Stop! Gira… alza la testa, alza il ventre, alza su, alt! Come sei dolce … solleva la gamba, anche l’altra, fai piano, va bene cosi. Non stringermi così, fai piano. No! Finiscila. No! Alza la testa, su così. Dai, così mi fai il solletico!
Tua madre doveva essere proprio una bestia. Che ci vuole? Avanti, avanti, vuoi un dolcetto? Col cavolo il dolcetto! Stamattina hai l’energia giusta, vedo che hai voglia di dimostrare di non essere del tutto inutile. Daaaaai! Mi stai rovinando il programma. Ebbene, signori: questo leone non sa salire un gradino, figuriamoci saltare da uno sgabello all’altro… gira… alza la testa, salta, salta!
Che fatica. Questo lavoro fa schifo, veramente schifo, odio questa tuta, questi guanti, questo cappello ridicolo, questa frusta e SCIUUUUUUUUUUUUUUUUU (frustino).
noi offriamo un paradiso, il Paradiso. Ritmo, ritmo, non c’è tempo per pensare, la riflessione è rivoluzione
Eccolo il mio lavoro, io sto al centro e devo esibire tutta la mia bravura per sperare che queste bestie si muovano. Ora, dico io, ma se uno deve muoversi da qui a lì di fronte e non ci vuole andare, perché dovrebbe farlo? Perché devo essere io a dirgli di fare una cosa che non gli va di fare? SCIUUUUUUUUUUUUUUU…dieci anni di questa vita e passi da sentirti un dio a sentirti davvero una schifezza.
Eppure, il pubblico batte le mani, mi osanna. Ma che hanno da applaudire? Mi sembra di vivere un incubo, schiacciato dentro questa sensazione d’inopinata banalità.
La capa, la Miranda, non ne parliamo. Una bambola gonfiata d’aria compressa che si trascina da un posto all’altro perforando i timpani a tutti quelli che le stanno vicino, umani e bestie.
Alle nove d’ogni mattina passa in rassegna tutti noi. Per ciascuno c’è sempre qualcosa che non va e grida e strilla e irrompe scurrile la sua rabbia scatenando terremoti di passioni, traumi indicibili. Mi domando, ma questa non si è mai vista allo specchio? SCIUUUUUUUUUUUUUUUUU
Una massa di forcine parlanti a reggere un edificio ambulante, un palazzo graffitato da scellerati tossici writers senza pudore. Quando il suo passo, che perfora con tacchi 12 qualsiasi pavimentazione non cementata, mi giunge accanto senza guardare, con un sorriso rosso fuoco, ogni mattina mi sussurra all’orecchio: Arrigo, sei un idiota, proprio un idiota. SCIUUUUUUUUUUUU.
Allora vi spiego. Un giorno suo padre, anziano proprietario del circo, mi venne a trovare in banca, ah sì, finito il calcio lavoravo in banca, prima. Si sedette di fronte e mi disse: “Ecco, vedi Arrigo, la cosa non è complicata… basta dedizione… guardati attorno! In quest’ufficio, tu sei un addomesticato, entri, timbri, ti vesti in un certo modo, giacca e cravatta, ossequi il tuo capo, chiedi permesso per uscire, per andare in vacanza.” Mentre parlava, guardavo le sue mani forti, ossute e nervose come una morsa mobile, flessibile, solo una di loro sarebbe stata capace, pensavo, di strozzare senza fatica e in un secondo qualsiasi collo di gallina e non solo.
“Hai delle regole da rispettare: essere gentile e sorridente con i clienti, non alzare la voce. Io queste cose le conosco bene, non ti offendere, ti parlo da amico.”
uhmmmm
Io non sono un nessuno come te. Uno come tanti. Io SONO, io tiro, tesso, sfilo le corde della realtà, modifico il percorso delle cose, sfido il potere del mondo costruendo una realtà che ha le mie regole. La gente mi osanna, mi applaude, ogni giorno, ogni sera.
uhmmmm
Mentre la morsa pesante, rapida, arrivava brusca sulla mia spalla, un sorriso, di quelli che ti verrebbe voglia di inseguire oltre il confine della linea dell’orizzonte, placò ogni mio dubbio. Aveva ragione lui. Quello che diceva era tutto vero.
Avere il potere di regalare carezze, dolcetti, amore e sorrisi o di elargire punizioni, dolori, frustate, sofferenze?
La mia vita era conformata ad uno standard che non avevo deciso io, seguivo regole che non erano quelle che avrei voluto, ero un automa, non decidevo nulla, seguivo un percorso di vita imposto da altri. E la mia vita, allora? Che sfida era questa? Una partita con regole stabilite da altri. Ed io?
Per un mese intero mi lasciai trasportare dall’idea di provarci. Perché non tentare di gestire le vite degli altri, assaporare il profumo del comando? Avere il potere di regalare carezze, dolcetti, amore e sorrisi o di elargire punizioni, dolori, frustate, sofferenze?
Destinare, cioè, la mia inutilità al mio servizio, ecco ciò che mi si offriva! Ecco quello che volevo da sempre! Essere al servizio dell’inutile per un utile personale. Io Arrigo, impiegato di banca, sarò un leader, sarò un capo, regolerò come un orologio il mio futuro e anche quello degli altri.
Un giovedì lasciai la banca, mi dimisi. Andai per un mese a Budapest ad imparare come gestire la faccenda.
Maestri magiari, anarchici senza regole.
CONTINUA…
(l’intero racconto è pubblicato su NOVA n.59, ed. il Rabdomante)