Il ragazzo del cous cous e la nostra indifferenza
In questi giorni ho posto sui social una domanda che ultimamente mi pongo spesso e che parla di indifferenza, mancanza di curiosità, grigiore interiore, muri esteriori. Era la versione semplificata di una questione ben più complessa. Suonava così:
“Domandona per tutti (esclusi i colleghi ed altri addetti ai lavori)
Si fa tanto parlare di migranti e compagnia bella. Ci si impegna tanto a debita distanza. Si dice Ma che bello Fuocoammare. Però poi per strada regna l’indifferenza.Se un ragazzo di colore dice ciao timidamente, si rabbrividisce e si tace fingendo di non aver sentito. Si regalano viveri a distanza perché tanto la dispensa è piena e a noi poco cambia, ma poi per strada ci si ignora bellamente. Un po’ come quando ci si conosce su facebook e nella vita reale non ci si saluta nemmeno. Ma in questo caso le spalle voltate fanno più male.
Troppi hanno dimenticato quanto il sentirsi a proprio agio nello stato ospitante sia un bisogno di principale importanza. Si manifesta a favore di cambiamenti dall’alto ma poi non si ha quasi neanche idea di dove si nascondano quotidianamente questi misteriosi uomini e donne. Come in Fuocoammare, appunto, ci si sfiora senza accorgersi della realtà che ci passa a fianco.
Allora torniamo alla domandona: chi di voi saprebbe confrontarsi con uno o più migranti?
Chi saprebbe rapportarcisi senza preconcetti, senza esigere unicamente il racconto di una storia straziante, senza ignorare il dato imprescindibile della loro età e le sue conseguenze, senza stupirsi del loro uso assiduo dei social (come se fossero strumenti ad appannaggio unico degli occidentali)? Chi oserebbe mettersi profondamente e continuamente in dubbio confrontandosi con realtà dove le nostre certezze risultano assurdità senza senso? Chi saprebbe accettare un pensiero diverso con cui personalmente non è d’accordo senza giudicare chi si ha davanti e senza contribuire alla creazioni di muri ma senza, al contempo, rinunciare alla propria visione delle cose? Chi saprebbe fare questo lavoro profondissimo senza cadere nelle trappole dell’astrazione ma anzi ricordando sempre che una pacca sulla spalla, una partita insieme, un batti cinque sorridente valgono più di tutte le elucubrazioni di cui sopra?Vorrei che questo meraviglioso lavoro interiore non restasse un privilegio di chi, come me, con questa realtà ha a che fare ogni giorni per motivi di lavoro. Ed ora, a voi la parola. (Ricordando la domanda iniziale: chi di voi avrebbe voglia di confrontarsi con una persona come noi, che si alza ogni mattina non molto distante dalla nostra dimora, mangia beve ride piange e fa anche la pipì, ma che alle spalle ha qualcosa di più che la nostra infanzia più o meno spensierata?)”
Le risposte mi hanno lasciato sbalordita. Speravo almeno in una risposta secca, di una mano alzata che dicesse “io voglio conoscere un migrante!”. Invece no. C’è stato chi spiegava il perché della sua diffidenza per strada, chi si giustificava delegando tutta la responsabilità alla grande politica internazionale, chi aveva il coraggio di fare un mea culpa senza però sentirsela di voltar pagina, chi accusava la mancanza di strutture adatte e di luoghi d’incontro.
Se si continua a parlare di volontariato non ci toglieremo mai questo approccio da missionari o da paladini della giustizia
E non parlo di viaggi della speranza intercontinentali. Parlo di una assidua voglia di riuscire, della passione per quei 3/4 loro cibi orientali che conosco anche io, parlo del divertimento con cui, mentre insegno loro la mia lingua, cerco con umiltà di imparare la loro e di come poi mi ritrovo a riderci su.
Il loro passato passa in secondo piano e non per mancanza di rispetto ma per lo stesso identico motivo per cui posso avere amici ex alcoolizzato ex drogati ex depressi ma per me saranno sempre amici e basta nel momento dello scherzo e della goliardia fra coetanei. Mi capita addirittura di scherzare con alcuni dei miei amici-migranti più stretti sul loro sentirsi super star quando i giornalisti li prendono di mira, quando la gente li addita come una specie sconosciuta e bisbiglia “i migranti, i migranti!“.
E scherzarci su aiuta anche loro a prendere le cose con più leggerezza. A capire che c’è qualcuno che come loro coglie la schizofrenica assurdità che segna il divario fra chi li addita come l’uomo nero delle favole e chi sembra idolatrarli come cristi martiri e chi li pedina come veri e propri vip. È proprio questo che in Italia ancora non arriva: ci si incrosta su questo patetico approccio pietistico – di cui l’assistenzialismo è ahimé un derivato, per quanto più degno – che tanto sa di catechismo d’infanzia; ci si dimentica la spontaneità, il rapporto diretto, la curiosità senza pregiudizi. Quando mi faccio raccontare le ricette dell‘eba, del banku, che piace ai nigeriani ma che i compagni afghani odiano dopo averlo assaggiato insieme nelle abitazioni comuni, quando mi spiegano come si prepara il pane bengalese “roti“, nutro la mia curiosità, la soddisfo come non mai, sono felicissima.
Perché gli italiani preferiscono recarsi in ristoranti afghani, nepalesi, africani, piuttosto che conoscere chi con quei piatti è nato e cresciuto? Perché è pieno di gente che fa volontariato con i migranti ma poi questi ragazzi per strada sono sempre soli?
Servono spazi e luoghi di incontro, sì, ma se si continua a parlare di volontariato non ci toglieremo mai questo approccio da missionari o da paladini della giustizia. Quello che invece vorrei incentivare è molto più elementare, grezzo, istintivo, spontaneo. Non serve creare spazi nuovi, basterebbe mettere in comunicazione le realtà esistenti, creare ponti fra i punti di ritrovo universitari e le case dove le cooperative ospitano i migranti.
Tornando alla moda del ristorante etnico: avete mai notato che alle modaiole serate multiculturali multietniche e multiboh non si vede mai – e dico mai – un ragazzo arrivato in Italia da poco? Mai notato che gli scambi linguistici e i vari tandem – anche questi molto in voga – sono perlopiù fra autoctoni e erasmus? Quanti giovani italiani sarebbero curiosi di conoscere queste realtà altre e scoprirle per dei versi più vicine di quanto si pensava? È su questo che vorrei riflettere. Basterebbe pochissimo e qualsiasi delega di responsabilità è nient’altro che una scusa.
La lingua non è indispensabile. Eppure molti se lo ricordano soltanto quando è il momento di rimorchiare una ragazza russa o un muscoloso sudamericano.
Per venire incontro all’altro basta empatia. E lo spiega bene chi, fra i commenti dello status, mi racconta della bottiglia d’acqua regalata da un ragazzo di colore quando il distributore è fuori uso. Quando il mio amico chiede quanto deve al ragazzo, lui spiega: “al mio paese funziona così: se qualcuno ha bisogno gli dai anche la tua ultima bottiglia“. Lo dice fiero. Qui non possiamo più dire altrettanto.
A lezione spesso mi capita che, mentre mangio uno snack a cavallo fra le due lezioni, i miei alunni mi chiedano come mai in Italia non si usi condividere ciò che si sta mangiando. La domanda mi fa comunque riflettere. Perché abbiamo dimenticato cosa sia il bisogno. Perché in pochi lo ammetteranno ma in molti lo hanno già pensato:”costa un euro e se vuoi te lo prendi“. Perché “non ho una lira da perdere“. Una motivazione più egoista dell’altra, e qui sono la prima a fare mea culpa, ma soprattutto tutte risposte ignare di cosa voglia dire vivere senza la ridondanza alimentare a cui la nostra società ci ha abituati.
Poi capita di portare regali per i ragazzi: caramelle, cioccolatini, pizzette. Ma guai a chi dà segno di non saper distinguere di fronte ad un occidentale cosa è un regalo, un invito a consumare un cibo insieme, un’offerta, da ciò che non lo è. Offro il surplus, offro ciò che non ha senso offrire perché diventa riciclo – con pregi e limiti annessi – e non dono gratuito.
Ci chiudiamo nelle nostre abitazioni e nel nostro egoismo. Salvo poi lamentarci di cosiddette “invasioni”.
Inizialmente rimanevo colpita e leggermente offesa, ma ora ho capito che in loro il senso di proprietà è molto meno definito che in noi. E forse è questo uno dei punti principali per cui, come ha spiegato l’amico Paolo nel suo status, noi amanti del “mio” finiamo per chiuderci nelle nostre comode abitazioni e lasciamo agli altri la fortuna di popolare le piazze e le strade e godere del bel clima italiano. Salvo poi lamentarsi di cosiddette “invasioni”.
Tutto questo crea una distanza costante fra noi e loro.
Che fare? Più semplice a farsi che a dirsi.
Chi non è d’accordo con questo pigro adagiarsi sul proprio benessere senza guardarsi oltre e senza mettersi in discussione esca a fare due passi e risponda agli ciao di questi ragazzi; si faccia avanti per spezzare il ghiaccio; li inviti a fare una partita a pallone, gli chieda se amano le canzoni del nigeriano 2Face, se sanno della morte del cantante congolese Papa Wemba, o se nel loro paese anche loro non si perdevano una puntata della telenovela Leyla e Majnun.
Si scoprono storie stupende. Una fra tutte, quella del ragazzo che ama il cous cous. Cosa che potrebbe sembrare normale, se non fosse che me lo ha rivelato mentre chiedevo cosa amasse dell’Italia. Chiedo se in Nigeria non ce ne fosse, mi dice di no. Già questo potrebbe stupire alcuni, convinti che dalla Siria al Marocco al Sudafrica non si mangi altro che cous cous. Ma il ragazzo mi dà una spiegazione che non posso dimenticare: ha conosciuto il cous cous in Libia, prima di arrivare in Italia. Lo ha adorato da subito ed è stato contento di ritrovarlo in Italia. So delle torture e dei maltrattamenti che quasi tutti i ragazzi hanno vissuto in Libia e qualcosa dentro di me si commuove al pensiero di questo diciottenne che, in mezzo agli orrori, è riuscito ad innamorarsi di una pietanza. E gli auguro che il cous cous più buono lo possa trovare proprio qui, dove è arrivato come piatto d’importazione, con la sola eccezione della Sicilia.
Intanto però, durante le mie lezioni, racconto com’è fatta la lasagna: ai ragazzi viene l’acquolina alla bocca, e mi riprometto che prima o poi faremo una grande festa tutti insieme e che ci sarà cous cous, lasagna, eba, banku, okra, roti e tutti i piatti che ancora non conosco.
Intanto continuo a non capire come si possa non essere curiosi di arricchirsi approfondendo la conoscenza con queste persone così diverse, così simili, così coraggiose.