Londra. La strada, la Musica.
Scrivi Londra, leggi musica. E con musica tutta quella sfilza di nomi che hanno fatto la storia della musica, e che per un verso o per l’altro a questa città ci sono legati.
Ci arrivano a frotte con negli occhi sogni di rock’n’roll, e sebbene non tutti abbiano la fortuna (o il talento) di chiamarsi Jimmy Page o Paul McCartney, già esser parte della scena musicale inglese, respirare l’aria che i grandi hanno respirato, frequentare gli stessi club, attraversare le stesse strade sembra bastare a sentirsi parte del mito. O quasi.
Perché – punte di iceberg a parte – il panorama musicale londinese è composto da migliaia di sconosciuti che, con una tenacia che solo la passione può dare, continuano a far vibrare quotidianamente il cuore della capitale. Un sottobosco di artisti di ogni origine, stile e connotazione, eterogeneo almeno quanto la società inglese stessa. Londra non respinge nessuno, ognuno ha poi la sua battaglia da fare per stare a galla.
Basta concedersi il tempo di camminare, ascoltare. E il numero di incontri gratuiti che si fanno per strada è impressionante. Ritmi e melodie vagano nell’aria, si alternano, si mescolano. E fanno dimenticare ai passanti le zavorre della vita. Specialmente in metropolitana, dove, lo si creda o meno, allo scendere le scale mobili il tempo si ferma e si entra in una dimensione irreale, fatta di aria grigia e luce al neon bianca e fastidiosa. Un incantesimo che si spezza solo poi al risalire verso l’uscita. Ammassati gli uni contro gli altri con lo sguardo spento come in stato di trance, quasi ci si dimentica di essere umani. Se non fosse per loro.
Li chiamano tube buskers, ossia musicisti della metropolitana. Occupano spazi definiti, hanno passato le selezioni gestite dalla TFL, l’azienda che gestisce i trasporti di Londra, e a volte stanno in lunghe liste d’attesa per poter suonare nelle stazioni centrali all’ora di punta. Se ne vedono di timidi e di esibizionisti, di abili e diversamente abili (un cieco che fischia tenendo saldo il cappello delle offerte con il bastone bianco o un ragazzo senza mano che suona la chitarra reggendo il plettro con il moncherino), di più o meno esperti e più o meno organizzati. Tutti creano dinamicità.
Come Matt, che incontro tra gli svincoli labirintici dell’underground un sabato di aprile. Le note stridenti che fa uscire dal violino bianco odorano di Irlanda, così come gli occhi azzurro cielo e la barba rossastra. Ma non è irlandese, è inglese almeno quanto Carlo e Camilla. Ed appartiene a quella categoria di musicisti che per strada suonano a tempo perso, perché un gruppo e un’agenda di concerti ce l’hanno comunque. Lui si definisce un trovatore dei sotterranei ed i suoi pezzi gothic folk li diffonde nel web twittando e condividendoli su facebook e YouTube. Una ragazza gli si avvicina saltellando e getta una moneta dentro la custodia semiaperta del violino. Ride e se ne va; anche i suoi lunghi capelli biondi, agitandosi ad ogni balzo, mi ricordano scogliere a picco sul mare, vento, nuvole e prati verdi.
Per questi musicisti stare per strada é un modo per esercitarsi e al contempo dare e ricevere ispirazione. Baba Gale Kante sta seduto su una sedia a ridosso delle ceramiche color crema che ricoprono l’interno del tunnel che porta a London Bridge. Suona quella che ha tutta l’aria d’essere una versione africana del flauto traverso. “Il flauto traverso è una rielaborazione di questo”, e me lo passa. “Questo si chiama flauto Fula. Viene dall’Africa Occidentale”. Come lui, precisamente dalla Guinea. “Ma ho vissuto anche in altri Paesi dell’Africa. In Costa d’Avorio ad esempio, in Senegal”. Gli chiedo quanti anni ha e mi fa intendere che non me lo vuol dire “ma sono quarant’anni che suono”. Baba Gale Kante da lezioni di flauto Fula, suona con altri musicisti e partecipa a produzioni artistiche di vario genere. Prima di venire a Londra nel 2009 ha contribuito alla creazione dello spettacolo circense Afrika Afrika di André Heller. Gli chiedo che canzone stia suonando, mi risponde che è di Mori Kanté. “Non lo conosci?”, mi chiede tra l’incredulo e l’ironico. Sorrido imbarazzata e mi riprometto di cercarlo su Google il prima possibile.
E poi c’è chi per strada suona per esigenza. Sia fisica che economica. Niente agenda piena, niente progetti musicali stimolanti e neppure impianti audio di tutto rispetto. Selwyn é nato e cresciuto a Londra, a Greenwich per l’esattezza, da genitori Giamaicani. In Giamaica c’è pure stato ma, dice, non gli piace: “ti rubano persino le scarpe che hai addosso”. Gli mostro una birra e una coca cola, sceglie quest’ultima. “Suono in strada per arrotondare, sopravvivo facendo qualcosa che mi piace. Anche se questa gente qui – e indica i passanti – manco sa chi sono. Questi arrivano, ascoltano e se ne vanno”. Ma il sorriso da sotto la coppola non si spegne comunque. Racconta che a suonare il sassofono ha imparato da solo e che lo fa perché lo aiuta a respirare. “In passato ho fumato molto, ora ho i polmoni affaticati”. Ma la sua vera passione sono le percussioni. Mi chiede quale vantaggio possa mai trarre dal raccontarmi un pezzo della sua storia. Lo guardo e con la testa accenno alla lattina di coca cola che tra le sue mani si è ormai scaldata. Ride ancora, e mentre mi allontano la voce roca del sax intona una versione lenta de “La ragazza di Ipanema”.
Per strada c’è chi suona infine perché non c’é alternativa.
L’autobus 91 sbuca da dietro King’s Cross e quasi raggiunge la fermata mentre io mi chiedo se sia meglio salire o rimanermene ancora un po’ ad ascoltare. C’è un uomo che raggomitolato ai margini della strada suona con la fisarmonica una mazurca agrodolce. Ogni volta che lo vedo la stessa mazurca, lo stesso sguardo denso di pensieri, la stessa manciata di centesimi nella cassetta ai suoi piedi. Questa volta però ho la Reflex. La estraggo e inizio a scattare. Il suono dei click lo sveglia dall’incanto e, con un abbozzo di sorriso, si gira a suonare guardando nella mia direzione. Anche la gente che gli sta intorno sembra essersi accorta di lui, qualcuno gli getta monete, altri si fanno fotografare vicino alla fisarmonica.
Petrus sorride come un bambino. Tenendo lo sguardo grigioverde puntato all’orizzonte, mi racconta in un’italiano stentato di aver vissuto cinque anni in Italia, a Reggio Calabria, e due anni fa di essersi spostato a Londra. “Ma qui è difficile, dice, per la lingua”. Gli chiedo chi gli abbia insegnato a suonare la fisarmonica e lui mi racconta che ai suoi tempi in Romania queste cose le si imparava in famiglia, con la mamma, con le zie. E io nei suoi occhi vedo campagnole con la gonna lunga e il fazzoletto stretto intorno alla nuca, uomini in canottiera che con la sigaretta in bocca fanno musica o giocano a carte, bambini che tra le oche e le galline saltellano sulle note delle canzoni popolari. Le mie mani fredde spariscono tra le sue, calde e callose per il troppo suonare. “Grazie” mi dice.
Salgo sul 91 e mi dico che meno male, nella Londra che fu dei Beatles, dei Queen e dei Rolling Stones la musica è anche questo. La musica è anche, ancora relazione.