Quel che resta del Moby
C’era una volta… – Una regina! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di ferro.
Vorrei iniziare questa storia parafrasando l’incipit di Pinocchio.
Anche se procediamo un po’ al contrario. Perché in Pinocchio per la fantasia di Collodi un pezzo di legno si trasforma in una vita, un bambino, e nella nostra storia una nave piena di vita, di persone vive, si trasforma in un rottame di ferro pieno di morti. La regina c’era davvero qui, era il traghetto Koenigin Juliana. Regina Juliana: questo il nome dello scafo prima che passasse di proprietà della Moby Line e diventasse il Moby Prince.
Sul quel traghetto il 10 aprile del 1991, 25 anni fa, hanno perso la vita 140 persone che viaggiavano da Livorno a Olbia. Persone normali: marinai, gente che lavorava sulla nave. Soprattutto loro, pochi viaggiatori. Non si era d’estate piena, non c’erano i turisti che vanno in Costa Smeralda, i ragazzi in ferie, le famiglie che partono per il mare. C’erano turisti fuori stagione, qualche straniero, chi vendeva i giornali o i gadget a bordo, chi faceva la pizza, chi puliva le cabine, chi mandava i motori, chi tornava dal matrimonio di un parente.
… Per ogni tragedia credo sia importante mantenere viva la memoria, primo per evitare che si ripeta, poi perché la memoria tiene in vita…
Ma anche se sono passati 25 anni la città non dimentica. Due processi, nessun risultato. Un’associazione dei parenti delle vittime che lotta da anni per trovare risposte e alimentare una memoria attiva. Finalmente un’inchiesta parlamentare. L’Associazione culturale REACT dona alla città un monumento, realizzato dall’artista Federico Cavallini, che viene collocato in alto sulla città, sui prati della Fortezza Nuova. Un cubo fatto di lamiere provenienti dalla disfattura di materiale navale, lo stesso materiale che è divenuto la tomba dei morti del Moby Prince.
Cerimonia di commemorazione 10 Aprile, Koenigin Juliana
E siamo tornati alla nostra Koenigin Juliana. Un pezzo di ferro. Dall’interno sono stati praticati 140 “bugni”, colpi che risultano visivamente come pugni che bussano alla lamiera per uscire, per scappare. E’ stato registrato anche il sonoro dei colpi sferrati al ferro, un sinistro stridere che ricorda proprio l’attracco delle navi, la collisione, il pericolo di morte, la sensazione di impotenza che ha l’uomo di fronte alle gabbie da lui costruite e in cui rimane intrappolato. Una bara parlante rugginosa e chiusa in sé, che grida ancora oggi aiuto.
Pure il destino sembra continuare ad accanirsi col Moby. Pochi giorni dopo l’istallazione, dopo le commemorazioni del venticinquesimo, dei graffitari insozzano il monumento. Con usurate formule che imbrattano altri muri viene violato senza vergogna il simbolo della strage del Moby Prince, che una mattina dopo poche trascorse dalla commemorazione sta lì svergognato da scritte bianche.
Tutti sono attoniti e il dolore della città è tangibile. Non sembra attecchire in città il senso del rispetto per questi morti, per queste risposte negate alle famiglie che li piangono.
Non bastasse ciò, qualche giorno prima di questo spregio il cantante Francesco de Gregori si rende protagonista di un altro affronto alla dignità di chi commemora e cerca risposte, nella persona di Loris Rispoli, presidente dell’Associazione Moby 140 che raccoglie i familiari delle vittime, colui che più di tutti negli anni si è fatto portavoce e anima inquieta della battaglia per una verità, per una dignità da ridare ai proprio morti (lui ha perso la sorella).
Il cantante protagonista di un concerto al Teatro Goldoni di Livorno impedisce la consegna della targa che la Fondazione Goldoni – vicina da sempre a Rispoli e alla sua associazione – ogni anno emette a ricordo del Moby Prince nei giorni dell’anniversario del naufragio, cerimonia che avviene pubblicamente in seno a una manifestazione importante del Teatro.
De Gregori è da tempo avvisato che a inizio serata si svolgerà la piccola commemorazione. Rispoli gli ha preparato la maglietta “#iosono141”, suggestiva iniziativa pubblica di comunicazione sulla strage che Moby 140 porta avanti da tempo.
Ma il cantante si dichiara prima “deconcentrato” dall’avvenimento, poi “disinformato” e non permette che il rituale abbia luogo proprio la sera del suo concerto.
De Gregori, un artista italiano che abbiamo tutti collegato a impegno, a potere della parola, della denuncia, decide di umiliare anche lui la storia del Moby Prince.
“La prima classe costa mille lire
la seconda cento
la terza dolore e spavento
e puzza di sudore dal boccaporto
e odore di mare morto….”
E questo è proprio l’incipit di Titanic, una canzone di De Gregori. Quasi incredibile, vero?
Loris Rispoli non si perita a scrivere una lettera aperta al cantante esprimendo la sua delusione e l’offesa. Ed è proprio con Rispoli in persona che parlo di queste vicende: a lui chiedo, a caldo, una dichiarazione emotiva su tali fatti.
… Per ogni tragedia credo sia importante mantenere viva la memoria, primo per evitare che si ripeta, poi perché la memoria tiene in vita…Parlo poco e difficilmente di mia sorella, in questa vicenda ho da subito sentito empatia con coloro che hanno vissuto lo stesso dolore: abbiamo fatto insieme un percorso, che poi ho rivissuto con i familiari delle vittime della strage di Viareggio.La campagna #iosono141 parte da questo: io cittadino di questo paese dichiaro di essere la 141 vittima del silenzio, vittima dell’oblio, vittima della negazione della Verità e della mancata giustizia, io sono il 141 vivo e do voce a chi no n l’ha più. Quella scritta su maglie rosse che oltre mille persone hanno indossato significa questo. Ecco perché mi è dispiaciuto che un cantautore come De Gregori non abbia voluto che mi fosse consegnata la targa prima del suo concerto. Poteva dire: “fatelo io entro in scena dopo”, poteva assistere passivo o restare in camerino, ma non impedire col suo dissenso. Alcuni nel pubblico avevano indosso la maglie rosse… attendevano questo momento.Per quanto riguarda la statua abbiamo fortemente voluto un monumento che non fosse classico ma qualcosa che inducesse a riflettere, che riportasse alla memoria quella bara urlante che per ore ha continuato a navigare ingoiando nel fuoco 140 persone. L’opera di Cavallini a me trasmette questo, quei cento quaranta colpi sulle lamiere, quei colpi nel sonoro interno il 10 aprile 2016 mi sono sembrate le loro grida. E’ terribile pensare che cio che ci causa dolore debba essere messo in piazza: pensate alle madri che si appendono al collo le foto dei figli per chiedere giustizia…Mi ha provocato dolore che questo simbolo della sofferenza sia stato violato con delle scritte, mi ha ferito quel gesto e spero che si possa conoscere il volto dei responsabili per dire loro in faccia l’importanza del ricordo, del rispetto per i simboli artistici della morte. A loro e alle nuove generazioni sia portata d’esempio la storia, gli insegnanti portino gli alunni a vedere il cubo di lamiera, perché il ricordo abbia funzione educativa.
E così siamo ritornati al nostro cubo. C’era una volta una regina sì. Era una nave piena di vite umane. Ora c’è una bara sonora di ferro accartocciato e arrugginito, e la voglia di verità e giustizia da parte di una città e delle famiglie che hanno perduto un familiare. Non esistono tragedie di serie B. Insegniamo il rispetto per la storia del Moby Prince a tutti.