18 Aprile
Il 18 aprile non è per me una data qualunque. Non lo sarà mai, finché campo. Non ve ne frega granché, lo so, avete ragione. Ma io ve lo racconto lo stesso. E badate: stavolta quello che andrete a leggere non è frutto di fantasia. Ma vita vissuta, che, detta così, sembra una espressione scontata. Invece, in certi casi, che la vita venga vissuta a lungo non è poi così scontato.
È una questione di sliding doors, o se preferite di bivi; il Destino decide che prendi da una parte, e il cammino continua. Se avesse deciso per l’altra uscita, magari per la piccola differenza di un metro o un chilometro più avanti o più indietro… the end, fine delle trasmissioni.
In giorni come oggi, mi capita di pormi, quasi ogni anno, la stessa domanda: cosa passa per la testa di un uomo negli attimi in cui sa di essere in una situazione estrema? Quando la sua vita è seriamente in pericolo e la tanto temuta signora in nero potrebbe presentarsi da un momento all’altro? Un’ombra tetra, ombre di dita minacciose che sembrano pronte ad afferrarti. E poi non ti afferrano. Evidentemente, non è ancora il momento. Per fortuna.
Un’ombra tetra, ombre di dita minacciose che sembrano pronte ad afferrarti. E poi non ti afferrano
Io non lo so, esattamente. Però, so come andò per me tredici anni fa, la notte tra il 17 e il 18 aprile del 2003. In autostrada. Nei pressi di una bellissima località siciliana, Cefalù. Uso questo spazio e faccio una sorta di coming out. Per esorcizzare un ricordo che non è piacevole ma che -come tutte le esperienze- in fondo mi ha insegnato molto. Sull’apprezzare quel che si ha e che si è, di fronte alla prospettiva concreta del non essere più nulla.
E poi, lo racconto nella speranza che possa servire ad altri. Per evitare la stupidità di errori che a volte si raccontano e altre volte, se ti va peggio di come andò a me, no.
Ebbene, erano le 4 del mattino, circa. Alzare il volume fu il mio ultimo gesto di consapevole ribellione. Lo stereo a palla, il finestrino aperto, il vento in faccia che -per quanto primaverile- era fresco, a quell’ora della notte. Cantare a squarciagola per esorcizzare il fantasma di Morfeo che incombe; è ospite gradito e suadente se sei a letto o in poltrona, ma se guidi no: non è un buon compagno di viaggio. E io non volevo darmi per vinto; viaggio, da sempre, a qualsiasi ora del giorno e della notte ed in qualsiasi condizione di stanchezza o di stress. Il trionfo della presunzione (e della stupidità) mi portava a pensare: a me non capita! Certe cose, solo agli altri…
Dunque, il mio marchingegno anti colpo di sonno, il mio caffè doppio concentrato, furono gli U2 misti al vento freddo. Cantai con tutte le scarse energie che mi erano rimaste. Non riuscivo più a connettere, ma non c’erano aree di servizio né di sosta in quel tratto di autostrada. Buio pesto come solo in un’autostrada del Sud. Scorsi l’ancora di salvezza di cui avevo disperatamente bisogno, un cartello che indicava il casello a 1 km. Un solo misero chilometro. Cosa vuoi che sia? E invece è lungo un chilometro, a volte, tanto lungo… Decisi che mi sarei fermato lì a riposare un po’. E continuai a cantare, disturbando qualche stella notturna abituata al silenzio e insofferente al fatto che la voce di Bono venisse vilipesa da un accompagnamento tanto stonato.
Poi… fu un attimo. Un istante di buio. Un solo istante di buio totale, non si può chiamare sonno, era lo spermatozoo di una dormita, il desiderio, il progetto timido di un sonnellino: occhi chiusi una frazione di secondo. Ma una frazione di secondo, nel posto e nel momento sbagliato, possono bastare a cancellare tutti i secondi di lì a venire, far scorrere i titoli di coda mentre stai guardando il film, il tuo film, e non capisci perché debba finire con tanto anticipo. Basta un istante e dopo, improvvisamente ti ritrovi in giravolte senza senso apparente dentro un’auto impazzita. Stavo sognando? No. Riapro gli occhi e realizzo subito che quella che sembra una giostra, una montagna russa comparsa da chissà quale parco attrazioni, in realtà non è una giostra. E nemmeno un gioco, e nemmeno uno scherzo: si attivano le sinapsi mentali, un istante prima stavo guidando in autostrada, quindi quella macchina impazzita, fuori controllo, deve avere oltrepassato il limite del guardrail, ma non riesco a capire dove sia e dove stia andando. Sull’altra corsia contromano? C’è un burrone lì vicino?
Passano milioni di pensieri in pochi secondi. Come un enorme programma di compressione che in un unico file di piccolissime dimensioni infila milioni di file. Pensi a chi non hai fatto a tempo a salutare, a dirgli che gli hai voluto bene, a dirgli visto? Valeva la pena litigare per cazzate? Pensi al tempo che hai perso senza far nulla o facendo le cose sbagliate. Pensi che non ti sei nemmeno confessato, ma in fondo la coscienza te la senti pulita. Hai diversi rimpianti, rimorsi pochi. Pensi: proprio adesso che forse finalmente stavo crescendo? Il pensiero più forte e più nitido era semplice, persino banale: sarò ancora vivo tra uno, due o dieci secondi? Dura tutto pochissimo, ma i flashback rallentano la scena in attimi lunghissimi pieni di fotogrammi, pensieri, adrenalina. Paura vera e propria forse no, non c’è tempo di aver paura.
Il pensiero più forte e più nitido era semplice, persino banale: sarò ancora vivo tra uno, due o dieci secondi?
E poi arriva lo schianto. Un botto che ancora adesso, molti anni dopo, ogni tanto mi capita di sentire, ospite indesiderato di incubi notturni.
Anche il botto è un attimo. Poi torna il silenzio della notte. Riapro gli occhi, capisco di essere riverso sull’altro sedile, in una posizione assurda, né verticale né orizzontale. Percepisco che c’è molto fumo dal motore, anche se non lo vedo bene. La cosa che non dimenticherò mai è il gesto istintivo di toccarmi. La fronte, il collo, le braccia. No, non per il dolore, non sentivo alcun dolore. Avevo solo bisogno di una conferma, una piccola, assurda conferma: sono ancora vivo. Non capivo molto di quello che avevo intorno, c’era un buio quasi innaturale ma la prima impellente necessità era assicurarmi di essere ancora vivo. Poi di essere, più o meno, intero. Ero insanguinato in viso e sulle braccia e altrove, ma pareva fossi tutto intero. Continuava ad esserci un silenzio irreale e un gran fumo dal vano anteriore dell’auto, o da quello che ne restava. Dovevo riuscire a uscire dall’abitacolo, ero incastrato e lì avvertii il primo vero attimo di panico: quel fumo poteva indicare pericolo di incendio imminente. Non riuscivo a muovermi, non sentivo le gambe, non sentivo dolore, sapevo solo di dover fuggire. Mi accorsi che non c’era più la musica. La canzone si era interrotta. Mi ricordai che la stavo cantando a squarciagola, ora solo silenzio, fumo e lamiere contorte. Se ci ripenso, mi vien quasi da ridere: la canzone era Beautiful day.
Dopo qualche ora ero steso sul lettino, per me stretto e scomodo, di un’ambulanza. Diretti all’ospedale più vicino. Ogni vibrazione era tremenda: adesso il dolore era arrivato. E con lui, di lì a poco, le prime luci dell’alba. Quello che stava per cominciare non sarebbe stato affatto un Beautiful day. Il piede destro mi si era girato al contrario, con l’alluce rivolto verso il polpaccio, mi sembrava una immagine impossibile. E invece no: succede, quando tibia e perone vanno in frantumi, sbriciolate.
Dopo andò come andò. Fu un periodo lungo pieno di complicazioni e di scoramento, per alcuni mesi pensai che non sarei più tornato a camminare. Ho ripensato molte volte -è inevitabile per tutti quelli che attraversano questo tipo di esperienze- che adesso al mio posto avrebbe potuto esserci un mazzo di fiori posato in autostrada. Che qualcuno mi avrebbe pianto: magari, nei ricordi, sarei venuto fuori meglio di come realmente sono. E mi sarei perso un sacco di cose, belle, o brutte, ma per cui è valsa la pena continuare a esserci.
Non avrei visto il Palermo tornare in Serie A, dopo oltre 30 anni. Assolutamente imperdibile, eh. E poi, una volta in serie A, mi sarei perso i 3.889 allenatori che si sono succeduti sulla panchina della mia squadra del cuore.
Non avrei visto il bunga bunga, il Social diventare una sorta di Agorà degli anni Duemila, solo, purtroppo, senza Pericle e Socrate a frequentarla; i mafiosi travestiti da anti-mafiosi, la mia terra che cade ancora quando sembra rialzarsi, ma poi si rialza, e poi cade ancora, e ancora si rialza. La mafia finire però no: quello non l’ho ancora vista in ogni caso.
Non avrei conosciuto tanta gente valida o splendida, e neanche tantissima obiettivamente oscillante tra l’inutile e il pessimo.
Non avrei voluto bene al mondo, più che ho potuto e meno di quanto avrei voluto.
per apprezzare l’essere qui, spesso, dobbiamo toccare da vicino la prospettiva di non esserci
Non avrei detto milioni di volte che mi metto a dieta: sarei dimagrito di colpo e definitivamente, pare che da morti si dimagrisca sul serio.
Non mi sarei messo a scrivere (ok ok, lo so, l’umanità non ne avrebbe risentito per nulla).
Non avrei contribuito a procreare le mie tre figlie, indiscutibilmente le tre “cose” migliori della mia vita. Quelle per cui, più di tutto, sono felice che quella notte non sia stata l’ultima.
Non avrei riso, urlato, pianto e gioito, non avrei capito che per apprezzare l’essere qui, spesso, dobbiamo toccare da vicino la prospettiva di non esserci. Dicendo a Dio che ho una gran curiosità di conoscerlo, ma possiamo aspettare ancora un bel po’, no?
Si ringrazia Erika Sichera per i contributi fotografici