Ce l’hai una voce?
Giornate piene, giornate di sveglie assurde, la mia voce fra i caffè presi di fretta, gli occhi gonfi e le decisioni sbagliate. Giornate dell’ “era meglio mettere almeno un filo di trucco”. Certi giorni non hanno pause, non hanno un respiro regolare, ma solo singhiozzi isterici ed io mi ritrovo nella corsa dimenticando di prendere fiato, di cacciare la testa fuori dall’acqua ogni due bracciate e di riempire i polmoni d’aria buona. Eppure la sensazione di affondare è minima, prevale quel sollievo di rimanere a galla, di nuotare, di sentire i muscoli agitarsi, bruciare, sudare. Il tempo risulta allargato, ristretto, consumato, centrifugato, concentrato, e in questa giostra la tristezza si mischia alla voglia di fare in un equilibrio insolito.
Lisbona mi ha dato una voce, ma non perché in questa città ci sia un segreto, una rivelazione, un’epifania, ma perchè non c’era nessuno che parlasse al posto mio.
Ho imparato a sentirmi, a darmi una voce, ad essere gentile con le mie emozioni, a cullarmi durante i miei bassi e a sollazzarmi durante alcuni alti, immortali momenti di invincibilità. Lisbona mi ha dato una voce, ma non perché in questa città ci sia un segreto, una rivelazione, un’epifania, ma perchè non c’era nessuno che parlasse al posto mio. Nessuno che pensava di conoscere già le mie note. Lisbona mi ha permesso di essere carta bianca, vuota. Ho scritto le prime righe incerta, aspettando che qualcun altro le completasse, fino a quando ho smesso di aspettare e ho finalmente capito che la trama sono io. L’inchiostro, l’impugnatura della penna, la forma, gli spazi lasciati tra una parola e l’altra, sono sempre io. E mi piacciono anche le sbavature ai bordi, le cancellature, gli appunti presi in fretta e fura, sono tutti parte delle mie pagine. La storia di avere un posto nel mondo è sopravvalutata, non c’è nessun mondo, nessuna geografia che coroni la nostra indipendenza, ma ci siamo noi e il nostro peso specifico, la volontà di avere una voce. Perché alla fine non importa solo parlare, la chiave è colpire. Arrivare dritti lì dove le parole cadono sul fondo e seminano. Lì dove c’è sempre qualcuno che, anche di spalle e a occhi chiusi, ti direbbe “T’avrei riconosciuta tra mille”.