Mia nonna, Di Pietro e gli spaesati
Ieri mi trovavo a rovistare un armadio del garage in cerca di qualcosa che difficilmente avrei trovato, in quanto non aveva forma, odore e manco un nome. Insomma non sapevo cosa stavo cercando, ma comunque cercavo. Il che ultimamente mi accade spesso e forse avrei di che farne la mia filosofia di vita. Già che ci sono, potrei aggiornare la mia pagina Facebook: qualcosa su di te. E già mi vedo il viandante sbuffare e rifilarmi un paio di epiteti del tipo sfigato! e borioso! tra capo e collo. Quindi meglio lasciar perdere. Fitzgerald va più che bene.
Ma non perdiamo la retta via. Mi trovavo a rovistare un armadio e quasi che dopo il terzo ricettario materno stavo per abbandonare la ricerca del tesoro. Quand’ecco che tra un cartoccio di patate e un timballo di non so che mi ritrovo tra le mani un libro dall’aria familiare. Aveva la copertina verde, i bordi resi gialli dalla scarsa usura, una bella orecchia a un terzo di volume e un puzzo di merda di topo che ve lo raccomando. Allora, girando il volume con la punta delle dita perché mi faceva un po’ schifo, ho letto il titolo vergato in un bel giallo schocking: “Antonio Di Pietro, il giudice terremoto l’uomo della speranza”.
E allora ho ripensato a mia nonna. Perché si da il caso che i miei ricordi riguardo a quel libro portino dritti alla sua figura scarna e rugosa di donna vissuta tra le pieghe dell’appennino, della fame e di due guerre mondiali. Aveva la terza elementare, un italiano approssimativo e una fame di storie di vita incredibile. La ricordo leggere a voce alta (a voce bassa non gli riusciva) riviste di gossip, attualità, persino i miei libri per bambini. Negli inverni passati suo malgrado in città
Poi quel libro cambiava registro e i campi erano sostituiti dai tribunali, i buoi dai computer. E allora a mia nonna di quelle diavolerie non era importato più una sega ed aveva abbandonato il libro.
Ero un bambino quando scoppiò Tangentopoli. Non so come quel libro sul personaggio del momento finì tra le mani di mia nonna. Ricordo la passione con cui lo leggeva e forse per qualche giorno quel libro era riuscito a farle dimenticare il lungo inverno lontano dagli orti. Ricordo anche che la storia che tanto l’aveva rapita in un primo momento, col seguitare delle pagine l’aveva lasciata fredda, fino a costringerla ad abbandonarlo. Proprio lì dove avevo trovato l’orecchia-segnalibro.
Allora mi sono infilato un paio di guantini di lattice, perché davvero faceva un po’schifo, e ho dato un’occhiata a quelle prime pagine di libro che tanto avevano interessato mia nonna. Si narrava dell’infanzia di Di Pietro in un Molise arcaico, di animali a cui il piccolo Antonio si era affezionato e di tante altre cose che rappresentavano il piccolo mondo antico che fu di mia nonna e di milioni di altri morti di fame sparsi per quel dorso della penisola che prende il nome di appennino. Un mondo a parte, che unisce nord e sud in quella parola che alcuni usano con leggerezza e altri sanno essere assai grave: emigrazione.
Poi quel libro cambiava registro e i campi erano sostituiti dai tribunali, i buoi dai computer. E allora a mia nonna di quelle diavolerie non era importato più una sega ed aveva abbandonato il libro. Forse con un po’ di malcelato astio, come si usa fare con i messia mancati e le promesse frustrate. In trenta pagine era cambiata una civiltà e mia nonna aveva perso le coordinate. Mi è venuta alla mente quella meravigliosa foto di Uliano Lucas che riproduce un emigrante con valigia di cartone sotto il Pirellone. Un senso di spaesamento che non è lontano da quello di chi rovista gli armadi in cerca di qualcosa che non troverà mai.
Ho riposto il libro, gettato i guanti, mi sono seduto in auto e ho fatto partire Con una lacrima sul viso di Bobby Solo. Che non c’entrava nulla. Ma faceva tanto, tanto spleen.
Rovistate gli armadi. Non troverete voi stessi, ma qualcosa di interessante forse si. Non foss’altro che la merda di topo.