Un oblò di cielo in abissi di dolore
La scrittura ha sempre avuto -fra l’altro- la funzione di antidoto al malessere. Mettere su carta ha sempre avuto la conseguenza -secondaria o meno- di esorcizzare il timore di pensieri apparentemente incomprensibili ed illogici per metterli in un ordine che, alternando coordinate e subordinate, stabilisca gerarchie, cause, conseguenze, un inizio e una fine.
Ma c’è poi quella scrittura che proprio sulla narrazione del malessere costruisce castelli sublimi e, se tanti sono i riferimenti colti che si potrebbero fare a tal proposito, questo articolo si soffermerà su due pubblicazioni, una recente – “I miei piccoli dispiaceri”, di Miriam Toews – e l’altra un po’ meno – “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, di Peter Cameron – .
Nonostante l’accenno comune a dispiaceri e dolori, i due romanzi esplorano condizioni di sofferenza ben lontane fra loro. Se l’autrice canadese racconta il malessere di una ragazza, Yoli, poi donna, che assiste alla ferma volontà della sorella Elf di sottrarsi ad ogni costo alla vita, Cameron resta nella sfera più riservata di quel malessere d’inciampo adolescenziale, non trascurabile ma meno incisivo.
Il protagonista del romanzo di Cameron dice infatti: “Sembrava che tutti fossero in grado di accoppiarsi, di unire le proprie parti in modi piacevoli e fecondi, ma nella mia anatomia e nella mia psiche c’era qualcosa di impercettibilmente diverso che mi divideva in modo irrevocabile dagli altri. Era una sensazione dolorosa che mi rendeva molto infelice. Mi ha fatto piangere nel bagno degli uomini del Russel Building. E desiderare di non essere vivo”.
Qui è l’impossibilità di conformarsi alle norme comunemente diffuse e tacitamente accettate a far scaturire il dolore intimo di James.
Yoli ha invece una battaglia opposta da mandare avanti: quella di sconfiggere l’istinto distruttivo di Elf. Il quale poi, ovviamente, avrà radici silenziose e personali come quelle che vengono esplicitate da Cameron. Solo che il lettore le ignora, inquadra il mondo con gli occhi di Yoli, alle prese fin da ragazza con questioni di vita e di morte.
Entrambe sono, però, storie di sofferenza e ciò che sorprende dopo la lettura dei romanzi è la complessità narrata dagli autori, in cui la vita non basta a se stessa per essere vissuta ma necessita di alcune prerogative – la ferma voglia di viverla, il bisogno di affetto e il rifiuto del disagio relazionale, la necessità di una spinta vitale e di sogni da avverare –. Perché l’uomo è un animale simbolico e pensante e queste sono le ardue conseguenze di ciò.
Il tatto raffinato con cui gli autori narrano l’ambivalenza del dolore e della vita torna nella descrizione della Toews del rapporto fra le sorelle:
“Elf mi aveva preso per mano, come un anziano morente, e mi aveva guardato intensamente negli occhi.
Yoli, aveva detto, ti odio.
Mi ero chinata per baciarla e sussurrarle che lo sapevo, che ne ero consapevole. Ti odio anch’io, le avevo detto.
Era la prima volta che in un certo qual modo formulavamo il nostro problema di fondo. Lei voleva morire e io volevo che vivesse ed eravamo due nemiche che si amavano.”
Lasciando stare riferimenti leopardiani, tocchiamo con mano quanto l’egoismo della morte e l’altruismo della vita, più in generale l’amore e l’odio, possano coesistere in condizioni estreme e tenersi per mano, fondersi in un’unica spinta vitale che si scontra con l’imbarazzo alienante del nulla fatale.
Ad esplicitare in un certo qual senso la coesistenza di amore ed odio, altruismo ed egoismo, non sono in Elf ma nell’intero genere umano, si trova la frase del James Sveck di Cameron:
“Mi disturba che un comportamento all’apparenza tanto altruistico sia di fatto egoista. Anche i cosiddetti santi come Madre Teresa di Calcutta mi danno fastidio. In un certo senso era anche lei un’ambiziosa come mio padre o chiunque altro voglia arrivare ai vertici di una professione. Lei voleva essere la più santa di tutte, la santa numero uno, così ha fatto le cose più nauseanti che ha potuto, e lo so che ha aiutato tanta gente e ha alleviato le sofferenze altrui, non voglio dire che sia una brutta cosa, voglio solo dire che secondo me era egoista e ambiziosa come tutti gli altri. Il problema, se uno la pensa così, è che per evitare questo genere di ambizione e di egoismo bisognerebbe restare immobili: non fare del male ma neanche del bene a nessuno, non avere la presunzione di interferire col mondo.”
Eppure Elf non spaccia il suo disamore per la vita per una forma di altruismo, né si scusa per un presunto egoismo. Semplicemente, si sottrae ad ogni forma di giudizio, avanza nella vita apparentemente con il pilota automatico ma forse con dentro troppi guidatori impazziti che la vorrebbero condurre a mille mete diverse. E, mentre lei vorrebbe trovare la fuga al dolore, chi le sta attorno trova modo di sopravvivere, di passare oltre, senza saltargli sopra o ignorarlo.
In questa strenua resistenza, si fa grottesco anche l’atto del mangiare, di trovarsi insieme a condividere il silenzio di una stanza.
“Dovevo tornare all’ospedale a prendere l’equipaggio e poi andare da qualche parte in cerca di cibo perché bisognava pur mangiare, di nuovo, mangiare – sembrava così imbarazzante e ridicolo a questo punto – .”
Eppure è chiaro alla voce narrante della sorella di Elf che “Se qualcuno sta mangiando le ceneri del tuo protagonista ciò non significa che devi smettere di raccontare la storia.”.
E allora ecco nei momenti più bui che gruppi di persone si ritrovano ad essere famiglia e brindano “al futuro o all’inverosimiglianza del momento, o anche solo alla sua transitorietà, o ai ricordi personali, o semplicemente a un’idea più generale di rifugio.”
Fa capolino qui un collegamento, un’eco della voce della nonna Nanette di Peter Cameron, che azzarda saggiamente: “Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono – un dono crudele, ma pur sempre un dono.”
Il dono di trovarsi “uniti nonostante”. Nonostante si siano persi i propri punti fissi, ogni pregressa certezza e idea di controllo sulla propria vita e quella dei propri cari.
E’ infatti Yoli a girare a vuoto lungo il perimetro della città dove Elf è ricoverata, a percorrerlo come un cane da guardia, a segnare il territorio, su ponti e sotto altri ponti, con una convinzione: “Questa è roba mia. Qui non accadrà niente di male se pattuglio le strade come un vigilante impazzito.”
C’è il dono di sentirsi a casa, fosse anche in un solo posto nel mondo, come accade a casa della nonna:
“C’era mia nonna che mi ascoltava, che sembrava accettarmi come mi accettava solo lei, e fuori, tutt’intorno a noi, un sereno sabato estivo e un mondo non ancora completamente sopraffatto dalla stupidità, dall’intolleranza e dall’odio.”
C’è, in entrambi i romanzi, un piccolo oblò da cui guardare il cielo, senza tapparsi gli occhi di fronte a dolori e dispiaceri di sorta.