CIE: Il problema non è morire. È stare
CIE: Centri di identificazione ed espulsione. Un’antropologa porta a teatro il resoconto del suo lavoro di tesi, perché restare in silenzio è impossibile.
CIE: Centri di identificazione ed espulsione. La definizione mette i brividi, forse per questo si è restii ad approfondire la tematica. Luoghi di isolamento militarizzato, posti al margine sotto ogni punto di vista. Spazi che raccolgono le vite dei disgraziati che, per mancanza di qualche foglio, si ritrovano in stato di cosiddetta clandestinità e, per questo, sembrano perdere ogni diritto ad essere trattati come esseri umani. Chi, leggendo, ricrea l’immagine mentale dei campi di concentramento non è distante dalla realtà dei fatti.
I CIE sono luoghi dove “il problema non è morire. È stare”. In questo verbo si nasconde l’orrore di un’immobilità forzata, un obbligo di invisibilità e del divieto di qualsiasi contatto con il mondo. Il problema è stare in un posto dove i cellulari sono utensili sicuri soltanto se la telecamera viene accuratamente distrutta e puntellata, per scrupolo, con il bianchetto fin nel foro più profondo del pertugio scavatoci. Il problema è stare dove tutto è visibile, costantemente illuminato, giorno e notte, le persone come animali in gabbia o in un circo dell’orrore dove la morte è spettacolo quotidiano; le impiccagioni sono tanto frequenti da farsi alternativa disperata alla lampadina da soffitto, le labbra cucite sono sfogo di ribellione che scalfisce corpi che per lo stato giuridico, semplicemente, non esistono.
Fuori, intanto, si vive a cuor leggero, ignorando le atrocità quotidiane che prendono vita nei CIE: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Eppure Alice Conti, della compagnia Ortika, ha scelto la strada più ardua. Con “Chi ama brucia. Discorsi ai limiti della frontiera” ha voluto scavare sotto quell’apparente perfezione che i media pretendono di mostrare e si è avvicinata a quelli che nei CIE ci hanno lavorato. Li ha intervistati. Ci ha scritto una tesi. Ma non basta: le tesi oggigiorno le legge a malapena il proprio relatore. Alice ha toccato con mano una realtà che è impossibile non condividere: parlarne ad un pubblico più allargato è un dovere politico, spiega.
Lo ha fatto attraverso il teatro, dove va in scena da sola per narrare, coraggiosa in una scenografia scarna eppure efficace, quanto ha appreso dalle sue interviste a chi con il lavoro nei CIE si è guadagnato il pane quotidiano. Ma che in quegli stessi luoghi ha anche fatto esperienza dell’esaurimento nervoso, dell’assurdità del passaggio continuo fra realtà e bugie, apparenza e fatti. Alice Conti, coordinata soltanto da Alice Colla, light designer, racconta di quel personaggio, Croce, che fra mille rimandi religiosi narra la sua quotidianità in un inferno che ricorda quello di Sartre. A Croce spettano mansioni che chiunque potrebbe eseguire, nel centro: assistenza generale, distribuzione di cibo e farmaci, assistenza psicologica. Fornire le “condizioni umanitarie” agli “ospiti”, insomma. Che però sono di fatto condizioni disumane a cui sono sottoposti i prigionieri dei campi. Rappresentati come bestie urlanti che reclamano cibo, zucchero, medicine. “Aspirina divina, l’ansiolitico bevuto goccia a goccia, Aulin”. Ma di speranza, nemmeno una goccia.
Palline da tennis volano con messaggi nascosti all’interno, variante disperata dei messaggi chiusi in bottiglia. Di tanto in tanto fa la sua comparsa la Garante, personificazione dell’ipocrita leggerezza e del candore con cui le istituzioni rassicurano, “non è successo nulla”.
E invece, dentro, e gli orrori proseguono. La radio canta canzoncine di Natale, parla di “amore clandestino” come sogno femminile diffuso, nessuno pensa alla condizione di clandestinità nuda e cruda, l’Avvento avanza, la vita prosegue quasi come un reality show, un gioco a premi, si perde il contatto con la realtà. Chi in un modo, chi in un altro. Chi con sedato da jingle pubblicitari e veline vestite di strass, chi nel tentativo disperato e ostinato di non impazzire nell’alienazione di un isolamento forzato.
Di tanto in tanto, nel campo arrivano i mediatori culturali. Croce ne decanta la palese inutilità. Né gli operatori, sviliti a meri addetti alle pulizie, né gli intermediatori sembrano poter alcunché, nei CIE. Se arrivano con le migliori aspettative, quello che trovano finisce per soffocare la vitalità anche in loro.
Lo spettacolo di Alice Conti non inventa nulla, non gonfia: resta fedele alle interviste raccolte. Semmai, a dire dell’attrice, sono stati risparmiati taluni dettagli, considerati troppo forti per essere messi in scena. Eppure i brividi sono costanti.
Quei brividi dettati dall’assurdità di vedere la crudeltà farsi spazio subdola in uno spazio in cui si cita la Bibbia con fedeltà assoluta, “chiedete e vi sarà dato”, “prendete e mangiatene tutti”, “chi mi ama mi segua”. Sono citate anche le lingue di fuoco ardente. Eppure ad ardere, lo dice il titolo, è colui che ama. Chi ama, brucia. È una verità messa a tacere da tutte quelle voci angeliche la cui unica esclamazione è “per l’amore del CIE(lo)”.
E di fronte al ripetuto gioco di parole si sorride amaramente.
Chi ama brucia è uno spettacolo che tutti dovrebbero vedere. Un testo pensato, che calibra bene lo spessore artistico e la rilevanza sociale. Una drammaturgia che sprona a rivedere dalle basi il sistema adottato per accogliere i migranti e gestire la loro presenza, non soltanto nei CIE. Teatro di denuncia, teatro a tematica sociale. Teatro di indagine. Teatro consapevole del proprio ruolo civile. E sarebbe dovere di tutti colore che civili si reputano, informarsi su ciò che fa la società civile a cui dicono di appartenere.
Liberi di trarre poi le proprie conclusioni.
Lo spettacolo, cui ho avuto la fortuna di assistere al Circolo ARCI dei Carichi Sospesi di Padova, è realizzato con il patrocinio di Amnesty International Italia ed ha alle spalle un po’ di premi. Ma non abbastanza.
ideazione e regia Alice Conti
testo Chiara Zingariello
luci, audio, scene Alice Colla