La Scatola dei Segreti
Un giorno normalissimo. Un’aria leggera, un inaspettato sole primaverile che esaltava il profumo dei fiori e che si rifletteva nelle poche gocce ancora cadenti dai rami, figlie dei giorni di pioggia trascorsi e, naturalmente, la mia amata bottega. Il sole quando non te l’aspetti, che cosa meravigliosa. Avevamo aperto da poco, presumo fossero le nove e mezza. Di solito apriamo alle nove, ma è una scelta nostra; nessuno qui ti impone quando aprire o chiudere, quanto lavorare e se lavorare. Un giorno potreste passare di qui e trovare chiuso, senza nessun cartello che vi spieghi il perché. Se quel giorno vi arrabbierete, allora potete anche non preoccuparvi di ritornare: non siete i clienti adatti a me.
Alla fine i tentativi di imbrigliare l’imprevedibilità della vita, con quella mania di scandirla in ogni suo attimo, si riveleranno dei grossi fallimenti, ve lo garantisco.
Quella mattina comunque la bottega era aperta. Non avevamo avuto ancora nessun cliente, così ero alla mia scrivania a chiudere i conti del mese, aspettando di sentire il meraviglioso suono che la porta fa quando si apre. A volte penso che non esista suono più bello, in fondo quella porta è lì da sempre, ha visto più volti di quanti ne abbia visti io, ha ascoltato -in silenzio- più storie di quante ne sentirò mai. Ogni volta che si apre è come se raccontasse una storia di quel tempo passato, come fosse conservato nelle insenature di quel legno e diffuso con parsimonia nell’aria ad ogni carezza del vento.
Quando la porta finalmente si apre quel soffio di tempo è accompagnato da un ragazzo di circa vent’anni. Se ne sta lì sulla porta guardandosi un attimo attorno prima di fare qualche passo in avanti, poi la porta si chiude: “Buongiorno” esordisco, ma lui non risponde. Si guarda ancora intorno, come se si stesse assicurando di essere nel posto giusto. Ha l’aria provata e uno sguardo che così triste non l’avevo mai visto in nessuno, mi ricorda un cucciolo di gatto dopo una notte di pioggia: raggomitolato in se stesso, indifeso e impaurito. Con un filo di voce, tremante, prende finalmente parola: “Mi hanno detto che qui… si possono trovare cose che non esistono da nessun’altra parte… è vero?”, non mi da il tempo di rispondere, “Perché io sto cercando un oggetto, una cosa di cui ho assolutamente bisogno… Insomma, è vero che si possono rinchiudere i pensieri in una scatola? E che una volta fatto non tornano più finché non viene riaperta? La prego, mi dica che è vero, io ne ho bisogno!”
Sorrido. Per la sua ingenuità, per la sua triste bellezza, per quel qualcosa che urla dentro di lui e che non lo lascia dormire la notte, che gli regala risvegli amari e sudati nelle ore sbagliate e un cuscino bagnato dalle lacrime. Sorrido per la sua disperazione, per il suo sembrarmi appassito più di un fiore in inverno, per le bugie che non riesce a raccontarsi e le verità che pesano come un macigno sulle sue spalle strette, e lui lì, a camminare a stenti. Mi tocca dentro senza che io sappia nulla di lui, senza che mi abbia detto quel qualcosa cos’è. Vorrei dirgli che non ce n’è nemmeno bisogno, che i suoi occhi in attesa della mia risposta mi hanno già raccontato tutto. E soprattutto che credo di avere ciò di cosa ha bisogno, anche se non è quello che si aspetta lui.
Comincio a raccontargli della scatola, di come fu inventata per custodire quei segreti irrivelabili (non i pensieri) che alcuni portano -spesso loro malgrado- nel cuore. Del fatto che sia in grado di percepire la volontà di chi la possiede, e che solo questa volontà (pura e genuina) può permettere alla scatola di riaprirsi una volta chiusa. Lui ascolta con attenzione, probabilmente tranquillizzato dal fatto di aver capito di essere nel posto giusto. Io invece cerco di essere breve, perché in realtà quella scatola lui non l’avrà. Non oggi, non da me. Finita la spiegazione mi prendo il tempo di un respiro, poi glielo dico: “Ascolta, ragazzo… Io credo di aver capito qual’è il tuo problema, ma non credo che quella scatola sia ciò di cui hai bisogno.”.
Mi alzo e vado a prendere alcune cose. Lui non parla, ma sul suo volto è tornata quell’espressione, un’espressione che avrà avuto migliaia di volte e che negli anni ha imparato a farsi strada sul suo giovane viso scavando un tragitto troppo facile da ripercorrere. Quando torno e appoggio le cose sulla scrivania quell’aria di sconfitta si trasforma in agitazione:
Se tu chiudi quel dolore in una scatola, sai cosa rimarrà al suo posto? Niente, proprio niente.
“No, non hai fatto tutta questa strada per dei quaderni. Ma forse l’hai fatta per capire che è questo ciò di cui hai bisogno. Prendili e scrivi. Scrivi tutto il tuo dolore, impara a conoscerlo, a giocarci, a dagli una forma; imprimilo su fogli che puoi strappare o su cui puoi piangere; riempili di te, dei tuoi pensieri, dei tuoi segreti, disseminali in modo sparso così che sia difficile carpirli. Rendi la tua vita un’immensa autocitazione letteraria, metti un po’ di te in ogni personaggio delle tue storie, e rileggiti, così ti guarderai dall’alto, e da lì si sa che tutto sembra più piccolo. Anche il dolore.”.
Con gli occhi gonfi di lacrime prese i quaderni e se ne andò. Da allora ne è passato di tempo, quel ragazzo oggi non è più un ragazzo, ma tornò diverse volte, negli anni, per mostrarmi i suoi quaderni. Non gli bastarono quelli che gli donai, ne riempì a decine tante le cose che aveva da dire, e sapete una cosa? Non ho mai letto racconti più belli di quelli contenuti in quei quaderni. Divenne uno scrittore di successo, ma conservò sempre un po’ di quel suo sentirsi altro rispetto al mondo: usò tanti pseudonimi, non volle mai farsi riconoscere, mi diceva che per lui era importante che la gente leggesse ciò che scriveva senza che la sua persona, la sua faccia, il suo corpo, i suoi gesti, facessero da filtro. Probabilmente anche a voi sarà capitato di leggere qualcosa di suo, senza sapere che si trattasse di uno dei suoi pseudonimi. Io li conosco tutti, ma non ve li dirò. Ho chiuso quel segreto in una scatola, quella scatola di cui lui no, proprio non aveva bisogno.