La città dei morti
La prima volta che la vidi girava tra i tavoli del locale più famoso del Cairo, il Fishawi, dove a bere il tè ci veniva niente meno che Naguib Mahfouz, Premio Nobel per la letteratura nel 1988. Stava in braccio a una donna che vendeva fazzoletti per una lira al pacchetto, stretta in un’abaya nera lisa sui gomiti e con gli orli a brandelli. Aveva ad occhio e croce tre anni e la testa quasi pelata, deforme, troppo grande per il suo visino di bimba. Dormiva abbandonata tra le braccia della donna che insisteva affinché comprassimo qualcosa. Dobbiamo mangiare, dice, e si porta le mani alla bocca come ad introdurvi il cibo che non ha.
E noi irremovibili a guardare da un’altra parte, che se cedi con lei poi devi cedere anche con gli altri. Ma non è un’impresa facile rilassarsi davanti ad un tè alla menta mentre frotte di venditori ambulanti ti assalgono, insistono, ti ricordano che fuori dai vicoli del mercato, oltre le sete, le spezie ed il té che non riesci a gustarti in santa pace ci sono i problemi, c’è la realtà.
Questi vengono da Al-Qarafa, accenna il cameriere, la conosci? Certo che la conosco, Al-Qarafa è la Città dei Morti. La fondarono i conquistatori musulmani nel settimo secolo quale prima necropoli del villaggio di Al-Fustat, l’odierna Cairo, e nel corso del tempo si arricchì di monumenti, moschee, mausolei di califfi ed imam. Per secoli fu uno dei luoghi prediletti per ostentazione di ricchezza e potere politico, ché chi si poteva permettere un monumento funebre in quest’area godeva per forza di cose di un certo prestigio – un po’ come succedeva sulla riva opposta del Nilo all’epoca dei Faraoni.
Poi le politiche cambiarono, Al-Fustat divenne Il Cairo ”la vittoriosa” e vi iniziarono a confluire milioni di egiziani originari dalla valle del Nilo, dal Sinai e dalle oasi, che nella capitale cercavano condizioni di vita migliori. Molti di loro si trovarono invece a combattere con la povertà e non ebbero altra scelta che sistemarsi nella storica necropoli. Il governo ci fece arrivare l’acqua e l’elettricità e la comunità si ingrandì, arrivando a popolare ben 17 quartieri.
Quando ci perdiamo nell’intrecciato labirinto delle sue vie è un venerdì pomeriggio e dalla moschea si diffonde la voce dell’imam che guida la Salatu-l-jumu’ah. Per strada è silenzio ma dagli ingressi alle case-mausoleo si scorgono persone sedute a parlare o distese all’ombra a fare la siesta, bambini che giocano, donne accovacciate a terra tra le galline che fanno la spola tra il cortile e la soglia di casa. Tutto intorno solo tombe
Ed è dietro l’angolo che mi viene incontro insieme ad una decina di bambini, aggrappata al braccio della sorella maggiore che se la trascina dietro facendo attenzione che non cada. “Hello! Welcome, how are you!” ci urlano in coro agitando le mani mentre noi ci guardiamo basite. Questi ragazzini vendono fazzoletti al mercato. E c’è anche lei, non la confonderei con nessun’altra. Questa volta è sveglia e ci punta addosso i suoi occhioni neri con l’aria di chi non capisce cosa stia succedendo. Dunque vive qui. Poco più in là, sul ciglio della strada, tra l’immondizia lasciata al sole a macerare giace la carcassa sventrata di una capra.
“Salamu aleikum, posso chiedervi dei soldi?” mi volto e mi trovo davanti un adolescente con lo sguardo timido e la fronte imperlata dal sudore. “Mi spiace, di soldi non ne ho” mento. “Per favore” e non si muove. Ripenso alla scena di qualche minuto prima e senza troppa convinzione estraggo dal portafoglio poche lire. “Questo è tutto, siamo intesi?”. Acconsente e si allontana chinando il capo e ringraziando. Quando torna regge una pila di pane fresco “è per i miei fratelli. Prendine anche tu, l’ho
comprato con i tuoi soldi”. Le guance mi si accendono di vergogna.
Scendiamo una scalinata che ci conduce alla parte bassa della necropoli, la zona in cui ci sono i bar, i negozi, i carretti traboccanti di frutta, i motorini. E sembra di tornare alla vita. Qui ci arrivano anche i turisti a comprare oggetti in vetro riciclato. Le lampade e i bicchieri colorati fanno capolino dalle porte delle botteghe, riflettono la luce del sole e stampano nei muri riflessi arcobaleno.
Un’anziana signora si avvicina seguita da una bimba che le saltella intorno con l’aria spensierata. “Chiedi alle signorine se hanno sete. Volete dell’acqua?” e dalla borsa in plastica estrae una bottiglia con dei bicchieri. “Grazie, siamo a posto così”. “Sicure? Con questo caldo!”. La bottiglia sparisce nuovamente nella borsa “Siete sempre le benvenute!” e come è venuta se ne va.
Seguo con lo sguardo nonna e nipote che si allontanano e spariscono tra le vie di questo luogo inquietante e affascinante e penso che, come sempre, le lezioni più grandi vengono inconsapevolmente impartite dalle persone più umili. In questo luogo di promiscuità estrema tra morte e vita mi è stato insegnato che il valore della nostra esistenza altro non è che la somma degli atti di gentilezza compiuti nella breve parentesi tra infanzia e vecchiaia. Non c’è povertà che tenga. Al Qarafa docet.