Mimose e fighe in fuga
Per chi ancora fosse ignaro, oggi è la festa della donna, con tanto di mimosa d’ordinanza. Difficile essere rimasti all’oscuro data la miriade di post che fioccano, o meglio, fioriscono, su Facebook. Non starò certo qui a fare il pippone sul fatto che la festa ha un suo significato che in pochi conoscono. Che non è una festa ma una commemorazione. Del resto, come potrei proprio io salire sulla predella sgangherata (esistono ancora?), sedermi sulla mia bella sedia da prof e puntare il dito contro gli altri? Io che per anni, proprio grazie a questa festa, ho guadagnato tante belle lire, ché allora davano ben più soddisfazione di questi euro tristi e, diciamocelo, un po’ sfigati.
No, niente panico, non ero io a spogliarmi nei locali. Io mi limitavo a fare la mia serata musicale, lo spettacolo hot lo facevano gli altri, uomini ovviamente. E allora, parlo di un quindicennio fa come minimo, le regole erano ferree: niente uomini. Sì perché la sera della festa della donna, le donne volevan stare sole tra di loro, una sorta di grande gineceo tassativamente proibito all’uomo. Ma perché? Perché non condividere col proprio compagno, fidanzato, trombamico, anche una serata così speciale? E invece no, rigorosamente tra amiche. Era come se aprissero le gabbie e le fighe in fuga si lanciassero in orde più o meno danzanti, più o meno scatenate e invasate, ad assalire lo spogliarellista di turno. Altro dogma. Perché una cena normale tra amiche no, non sembra sufficiente. Il giorno dell’8 marzo anche la migliore madre di famiglia, morigerata e castigata, si trasformava nella più esaltata stracciacazzi da far paura alle pornodive, quelle vere.
Io ne ho visto, oh se ne ho visto! All’ora di cena si presentavano tutte in gruppi, minimo di due, vestite di tutto punto, agghindate e bardate come se fosse la loro ultima notte e dovessero sfoggiare tutti i gioielli in quell’unica occasione. Prendevano posto timidamente, spostando con garbo le sedie e sbattendo le lunghe ciglia mentre leggevano il menù incorniciato dalle immancabili (e puzzolenti) mimose. A quel punto iniziavo a cantare qualche pezzo tranquillo, soft, per accompagnare la cena dove le amate signore consumavano con delicata amabilità ogni pietanza. Finite le portate si cominciava con la musica ballabile e qui iniziavano i primi segni di un’epidemia di follia decisamente contagiosa. L’apice, però, si raggiungeva quando, finita la mia serata, faceva il suo ingresso lo “spogliarellista”, il più delle volte un ragazzetto universitario o i proprietari del locale. Bastava muovere, con nemmeno tanta perizia, i fianchi per vedere quelle gentili pulzelle trasformarsi in assatanate bramose di pene.
Era come se aprissero le gabbie e le fighe in fuga si lanciassero in orde più o meno danzanti, più o meno scatenate e invasate ad assalire lo spogliarellista di turno.
Ma di sicuro la festa della donna non è il luogo adatto per misurare il QI dello spogliarellista, né alle donne presenti può fregare qualcosa dell’ultimo libro che ha letto. Gli si scagliano addosso bramando, anelando il suo sesso, che immagino per la paura di tanta bieca volgarità debba rimpicciolirsi fino a rientrare nel pube.
E tanti auguri.