Fra accumuli e lacune: Romagnoli e Aira
Leggendo Gabriele Romagnoli con il suo ultimo “Solo bagaglio a mano” e Cesar Aira con “Marmo” ho avuto prova di come la bellezza di un libro va ben oltre la tesi che esso supporta. Li ho letti uno di fila all’altro, i due libri, uno arancione-giubbino-di-emergenza e l’altro azzurro, tinta unita per entrambi, nonostante narrassero esperienze opposte e contrastanti come fra loro contrastano i colori delle copertine.
“One life, one bag” è il motto da cui parte Romagnoli per narrare la sua filosofia di viaggio, che poi altro non è se non “grande viaggiatore, piccolo bagaglio”. Il giornalista descrive ciò che lo ha mosso fino in Corea, dove ha voluto testare sulla sua pelle quel rito funebre fittizio che la Corea Life Consulting ha inventato al fine di motivare i dipendenti delle aziende clienti alla vita e dissuaderli dal commettere l’atto estremo del suicidio, che nel paese raggiunge picchi altissimi. Romagnoli infatti ha lasciato che chiudessero il suo corpo in una bara vera e propria, dopo aver fatto testamento e adempito ad una serie di rituali pre-morte. Nel tentativo di simulare il distaccamento dalla vita, l’agenzia coreana mira a far riflettere sull’esistenza. E, in Romagnoli, ha aperto la scatola a riflessioni articolate sul “peso” della vita. Peso nel senso di valore, sì, ma anche peso materiale degli oggetti a cui affidiamo un valore astratto, simbolico, che usiamo come pedine per tracciare il nostro passaggio nel mondo e per mantenere il ricordo di chi se ne è andato, dal mondo o dalle nostre vite. E da lì il passo è breve per arrivare ad approfondire le grandi incertezze umane. La paura continua di perdersi, ignorando completamente quella serendipità che apre la strada a infinite scoperte, proprio nel momento in cui si perde la via che ci si era prefissi di seguire. “Perdere – dice Romagnoli – è avere un’occasione, invece si ha paura di perdere e/o perdersi […] Siamo circondati da indicazioni, cartelli stradali, navigatori satellitari, mappe sul cellulare.”
E una volta che le cose le abbiamo, che non le abbiamo perse, che succede? Succede perlopiù che le immagazziniamo e le mettiamo via, le riponiamo, impediamo loro di essere in qualche modo utili, nell’attesa di presunte “grandi occasioni“. E poi finisce che quegli oggetti tenuti sotto una campana di vetro si impolverano e basta, come accade con il tappeto per il bagno della madre dell’autore, mai utilizzato per lasciar spazio a tappetini di serie B. “Che senso ha comprare un biglietto di prima e uno di seconda classe per poi viaggiare in questa inferiore sistemazione tenendo l’altro biglietto ben custodito in tasca?”, si chiede Romagnoli. E finisce così che “possedere” si traduce in “essere posseduti”. Come è accaduto ai fratelli Collyer, che la polizia ha trovato sotto un cumulo di macerie dopo giorni di scavi, fra centoventi tonnellate di cianfrusaglie. O anche come il protagonista del romanzo di Aira che, credendo di lasciar succedere gli eventi davanti a sé, sta in realtà scegliendo di affidare il suo destino ad un gruzzolo di cianfrusaglie, regalategli da un cinese per arrotondare gli spiccioli che mancano al resto.
Romagnoli fa poi l’esempio di una cassaforte, che il padre ha lasciato dopo la sua morte. Nella speranza di trovare chissà quale tesoro, gli eredi la aprono e la loro aspettativa rimane delusa. Non quella di Gabriele, però, che decide di dare un senso particolare anche a quella serie di numeri estratta dalla cassaforte, anche se la sua parte adulta sa che un senso non c’è. “Non credere, ma vivere come se“, dare una chance alle casualità e agli eventi della vita. Quella di Romagnoli è una teoria che trova nelle azioni del protagonista di “Marmo” la sua messa in pratica: in “Marmo” tutto avanza “come se” quegli oggetti godessero davvero di vita propria, tanto che da oggetti si fanno soggetti, si “attivano”, provano addirittura nostalgia. Ci muoviamo, per dirla con Giuseppe Genna, nel “regime assoluto della percezione” dell’io protagonista, e l’atmosfera che si respira è assolutamente conturbante. Il senso degli oggetti è immanente, nascosto negli oggetti stessi e nella volontà delle persone di crederci, “le cose si chiarivano grazie alla loro stessa logica”, “la sua stessa esistenza creava la sua funzione”. E, mentre gli oggetti si fanno soggetti, vediamo anche il protagonista assalito da un dubbio appena accennato: quello di essere semplicemente oggetto nel percorso altrui, “funzionale alla sua (di un cinese che si fa compagno di avventure) avventura” ed assumere un certo rilievo quando chiamato a compiere la propria funzione, per poi cadere di nuovo nell’anonimato”. A sua volta, anche l’identità del cinese a tratti svanisce: “avevo creduto di individualizzarlo” pensa il protagonista, invece non era “nient’altro che l’ennesimo cinese”. I soggetti che si reificano e gli oggetti che si umanizzano. E in questo mare di semi-umanità, che ruota attorno all’ambientazione centrale del supermercato, “è inevitabile che alla lunga uno si conceda la fantasia di disporre liberamente di tutto”, di possedere al di là del valore degli oggetti, un possesso fine a se stesso. Leggendo César Aira si ha l’impressione di lasciarsi travolgere dal flusso mentale folle del protagonista che abdica dal raziocinio umano e decide di trattare gli oggetti come entità senzienti ed intelligenti, si sfocia nell’assurdo e lo si accetta perché non è un assurdo vuoto ma profondo e carico di riflessioni che confluiscono in frasi come “l’identico cancella il tempo”, “la realtà è una grande coincidenza”. E sulla scia di pensieri su universi paralleli e multiversi, si perde di vista l’incipit bizzarro del romanzo, la primissima scena, quella che soltanto alla fine torna a galla e genera un ammiccamento.
E così, anche con due lavori apparentemente distanti, due autori scrivono entrambi un inno alla vita e una ricerca di senso. Che sia un senso frutto di fiducia cieca nella realtà circostante, determinato dal fato e lasciato in mano agli oggetti, come in Aira, oppure un senso scelto in un potentissimo atto di libertà individuale e di non dipendenza dalla contingenza, come nel giornalista italiano. Romagnoli, a differenza di Aira, non ci gira tanto attorno. La sua è una dichiarazione d’amore: “Si sposa la vita in ricchezza e in povertà […] per 46 ore di felicità e 228 a lavarsi faccia e denti”, e l’auspicio è quello di “scegliere sempre la libertà, saper perdere cose e battaglie senza perdersi […] senza troppo passato né avvenire, ma con una inflessibile attrazione verso il presente, inafferrabile, imprevedibile”